Vedo moltissimi film ma ho perso un po' l'abitudine a scrivervi, mi spiace. Ve ne riporto solo due.
Roma, F. Fellini, 1972.
il film è semi autobiografico e metacinematografico, racconta l'arrivo a Roma da giovane del regista e l'oggi, di allora, mentre è alle prese con la realizzazione di un film. Sempre presente, come ambientazione e personaggio senza volto la città eterna.
Il film, seguendo quella dissoluzione dell'unidirezionalità narrativa attuata da Fellini fin da La dolce vita procede per quadri accomunati dalla costanza del caos iperpervasivo che è espressione della putrefazione della modernità. Strano non ci sia Guerra tra gli sceneggiatori.
Emblematica, in tal senso, la scena forse più bella che racconta di un viaggio nelle gallerie della metro in costruzione dove, andando a rompere un diaframma, si scopre una villa romana perfettamente conservata coi suoi affreschi che appena viene a contatto con l'aria della modernità si distrugge senza potervi porre rimedio.
Da segnalare nel film l'ultima prova da attrice della Magnani.
Il film, visto al cinema, era preceduto dall'intervista dell'attore Peter Gonzales che interpretava il Fellini diciottenne. Tra le varie cose ha raccontato che Fellini lo voleva come Titta in Amarcord ma la madre, in Texas, ha preso la telefonata al suo posto non dicendogli niente per paura che la lasciasse sola.
Roma, A. Cuaron, 2018.
Avvertenza: da guardare fino all'ultimissimo titolo di coda.
Spoiler
Roma, in questo caso, è un quartiere messicano. Il film viene dalla vita del regista e racconta l'inizio degli anni '70, quando era bambino, portando sulla pellicola la storia di una famiglia dell'alta borghesia che vive nella sua bella casa cittadina assieme a due domestiche, ed è in particolare Cleo, una delle due, ad esser protagonista del film.
La tragedia familiare, nella sua catastrofe piena di fatti comuni ma non per questo meno dolorosi, è qualcosa che il regista, forse anche tramite questo film, discesosi pienamente all'interno, vince non eliminandola ma comprendendola all'interno della vita, quasi ritualizzandola in quell'ultimo "shantih shantih shantih". La pace completa, quasi stoica, che nonostante il dolore ciò che accade rimane al termine di tutto.
La maestria nell'utilizzo della cinepresa è impeccabile. Usa il cavalletto, spesso piazzandola al centro della scena, lo usa come fulcro per esplorare a tutto tondo il panorama umano e visivo che lo attornia. Una nota di merito alla casa scelta, a dir poco da rivista di settore in quanto ad arredamento. Tornando alla cinepresa, questa coi suoi movimenti e le sue carrellate accompagna, quasi anticipandoli, i nostri familiari. Ma la maestria è nel riuscire a sfruttare questa camera sempre a distanza, sempre lontana dai protagonista, che guarda con occhio quasi documentaristico le vicende ma allo stesso tempo non toglie niente, anzi arriva ottimamente al pathos, al drammaticità di ciò che avviene.
E poi si potrebbe dire di quanto ogni scena non sia mai banale nel modo in cui è inquadrata: anche nel semplice arrivo di un auto a casa che diventa di volta in volta espressione dello stato d'animo del personaggio.
Mi spiace soltanto che un film di tale fattura sia destinato ad esser visto in piccoli schermi e in deboli impianti audio, perché anche il lavoro sul suono è ricercatissimo, ma se potete andate a vederlo al cinema. Questa sera l'ultima occasione di trovarlo in sala, tra l'altro grazie a un sodalizio tra Netflix e Cineteca di Bologna che apparentemente dovrebbero apparire agli opposti.
Detta in parole povere: anche quest'anno, agli Oscar, vince il Leone d'oro. O almeno lo meriterebbe, in qualsiasi categoria.
P.S. Il film in poco più di due ore racconta circa un anno della famiglia, decisamente intenso, ma quando è finito ne volevo ancora, mi è sembrato quasi corto per quanto poteva ancora raccontare.