perfX
Utenti-
Numero contenuti
1.568 -
Iscritto
-
Ultima visita
Tipo di contenuto
Profili
Forum
Calendario
Tutti i contenuti di perfX
-
Sottoscrivo pienamente la parte in spoiler. Come devo dire che anch'io mi sarei aspettato di più dal punto di vista visivo. Ok la camera a mano, ma poi le idee mi sono sembrate pochine. Comunque il film per me vorrebbe essere una riflessione su certi pregiudizi e segregazioni di oggi, ma neppure in questo mi pare riuscito. E poi mi sorge una domanda su cosa ci fosse a Cannes perché abbia vinto un premio così prestigioso. Mentre per Dunbo passo, Burton non lo amo neppure nei lavori maggiori quelli così così li lascio tranquillamente passare via. Invece Oro verde non lo conoscevo, ci darò un'occhiata.
-
Ho visto anch'io Border un paio di sere fa, e non sapevo come parlarne, ma il tuo commento mi facilita. La sceneggiatura non solo appare abbozzata, per me, ma anche un po' forzata. Nel senso che tutti gli elementi che accadono si vanno ad intrecciare perfettamente causando ognuno il pretesto per l'avvenimento successivo. Messa così potrebbe apparire una critica assurda, nel senso che ogni racconto ha fatti che si susseguono e influiscono tra loro, ma in Border il gioco appare un forzato. Per esempio Io ho fatto un po' fatica a digerire certi passaggi della trama. Ma questo non sarebbe neppure un problema, un film può reggersi su altro; questo ha la sua forza tutta nella particolarità della protagonista ma non mi è sembrato sufficiente. Resta comunque un film che si discosta dalla banalità e prova ad avere un'aura autoriale.
-
Border l'ho messo in lista anche io.
-
Mi dispiace sia un po' dimenticato questo posto, cerco un filo di rimediare. Il primo re. L'ho recuperato. Di buono, e non è poco, c'è da dire che non è uno di quei filmetti italiani tutti uguali, anzi si distingue chiaramente. Come buonissimo è il lavoro di fotografia di Ciprì. Quello che ho trovato debole è stata la scrittura del film: con scene che prese singolarmente funzionerebbero anche, ma che non risultano ben legate da una trama convincente. Cioè, i vari passaggi da una situazione all'altra appaiono un po' forzati, con un parte centrale non sempre capace di mantenere la presa sullo spettatore. Altro punto critico è l'eccessiva stereotipizzazione dei personaggi secondari e dell'esposizione delle ferite nelle numerose lotte che risultano un poco macchiettistiche. Sicuramente efficace la scelta del latino. The guilty (Il colpevole), di Gustav Moller, 2018. Uscito quasi nel silenzio è un film danese che porta a casa il risultato senza affanni. La storia si svolge interamente nel centralino di una stazione di polizia dove un agente, che scopriremo essere messo lì dopo un "incidente" in servizio in strada, riceve tra le molte telefonate d'aiuto una più particolare delle altre. Non svelo di più, dico solo che il film non è per nulla pretenzioso e questo gli permette di non annoiare mai nella sua giusta durata, meno dei classici 90'. D'altra parte, però, non regala mai la svolta o la trovata che lo rendano indimenticabile o particolare rispetto ad altri lavori simili.
-
Non ne ho a male proprio per nulla, anzi trovo sempre piacevole il fatto di confrontarsi. Sopratutto con chi ha idee differenti. Comunque la Mancuso è tappa fissa ogni settimana, dice le cose in faccia; e ha un'idea precisa di cinema che la si condivida o meno dà in ogni caso un punto di riferimento con cui confrontarsi. Che è quello che un po' scrivevo anche sopra.
-
Oxilia è un grandissimo del cinema italiano. Mi fa felice che venga conosciuto. Recupera, hai di che perderti nel suo cinema.
-
Stima immeritata, e non sono così esperto, anzi. In realtà sono io che ho una particolare stima per quello che ti conosco qui sul forum. Capisco anche la tua opinione sul regista, non penso serva neppure argomentare oltre perché lo conosci ed anch'io ho i miei registi no. Poi nel caso in questione ce sarebbero a iosa di motivi per non sopportarlo. Mi incuriosirebbe solo sapere quali film ti hanno fatto lasciare la sala.
-
La casa di Jack Il film più che una storia è una sorta di autoanalisi del regista, è un film totalmente autoreferenziale che nasce dall'esigenza di riflettere sulle proprie manie e sul modo in cui von Trier le ha affrontate. D'altronde l'ha detto lui stesso che il protagonista è il proprio alter ego, e quello che nel film lui sublima nell'efferatezza von Trier lo sublima nel cinema. Così abbiamo il primo significato della violenza nel film: questa è una metafora della propria arte, e il fatto che l'arte trovi metafora in una tale serie di delitti è significativo del rapporto che si ha con questa. Il secondo significato della violenza è invece una particolare concezione che von Trier ha della perversione, dalla brutalità e della putrefazione: ovvero queste sono forme d'arte al pari di una cattedrale: il medesimo valore ha l'ideazione di un dipinto perfetto e l'ideazione di un metodo di sterminio di massa. Non è una mia iperbole, per quanto discutibile è la sua idea. La muffa nobile. Ora del film si è molto detto della sua brutalità, e anche se ho potuto vedere solo la versione ridotta, perché l'altra non si trova, debbo dire che non c'è nulla di nuovo per chi abbia una minima dimestichezza con lo splatter o con Lars, e si può intuire che per quanto possano aver tagliato non si sarebbe andato in chissà quali vette. Forse è anche un modo furbo per venderlo, non so. In ogni caso la brutalità del film è data dalla perversione psicologica, e straordinario è il modo in cui da forma al disturbo ossessivo compulsivo. In questa catabasi psichica, o psicologica, paradossalmente il capitolo più debole è proprio quello denominato catabasi, in cui von Trier forse si concede troppa cgi e lo sviluppo appare meno efficace. In ogni caso, l'aspetto forse più alto del film, assieme alle considerazioni sull'arte di von Trier che per quanto respingenti sono indubbiamente affascinanti, è la forma del film. Il film ha sì una parte classica, da cinema narrativo, ma è spesso inframmezzata da sequenze di immagini e video terzi che possono appartenere alla pittura, al frammenti di video, film etc. E questo è forse l'esempio del genio di von Trier che nel succedersi dei decenni è riuscito ad intuire quale sia la forma cinematografica propria di un determinato periodo, non dico che inventi un'estetica ma che intuisca quale sia l'estetica del periodo e la riesca a portare nel cinema. Così negli '80 recepisce quell'immaginario punk e dalle forme degradanti, così con Dogma intuisce quale sia la potenzialità della videocamera a basso costo, ed oggi che abbiamo immagini e video che ci vengono somministrati in ogni dove senza neppure una separazione tra loro, che quasi si sovrappongono, ecco che il regista danese le riesce ad utilizzare come materiale cinematografico, ed uso materiale non a caso considerando il film dove si parla anche del valore di questo. Quindi La casa di Jack, titolo che in italiano non vuol dire nulla, in realtà nell'originale è una citazione di una filastrocca omonima simile a Alla fiera dell'est già sentita nell'Elemento del crimine, è uno straordinario esempio, direi riuscito e non semplice esercizio, di quale possa essere la forma di un cinema contemporaneo alla nostra epoca, o una delle forme. Indubbiamente lo voglio rivedere, magari anche in v.o., perché ricchissimo di aspetti da cogliere o su cui riflettere.
-
Il cielo sopra Berlino. Brevemente, ma ci sarebbe moltissimo da dire. Una mancanza gravissima che mi pento di aver colmato così tardi. Il film di Wenders è qualcosa di veramente prezioso: c'è quest'uso della cinepresa che vuole imitare il volo degli angeli e la loro rapidità che è qualcosa di magico. E poi il sapiente missaggio di bianconero e colore. Wenders ci parla dell'infanzia del mondo, un'età di pace e vita piena per l'uomo, che è andata ormai perduta in una società di uomini che non sanno guardare oltre l'apparenza, ciò che è realmente vero. Un angelo è in particolare colui che seguiamo per scoprire questo mondo fatto di persone spesso affannate ma anche da esempi di uomini, o sopratutto bambini, che non sono ancora piegati dal falso. Il film ha inoltre delle importanti sequenze musicali, con Nick Cave che non solo presta la sua voce ma compare in lunghe scene in cui interpreta se stesso in concerto. Ma ancor più belle sono le sequenze aree di una ragazza, una circense, che inscenando un angelo compie i suoi numeri al trapezio in un leggero volo che sfida la gravità. Ed è la gravità, il senso del limite e tutto ciò che di bello contiene la vita che il nostro angelo vuole conoscere e finalmente vivere, dopo un'eternità passata a guardare cercando di consolare l'animo di chi è solo. Il nostro angelo vuole conoscere questa ragazza bellissima che gli dà finalmente la prova che esista ancora quell'infanzia del mondo ormai data per persa. Il seguito del film, Così lontano così vicino, riprende la stessa storia a poca distanza di tempo. Riprende anche gli stessi stilemi di regia e missaggio di bianconero e colore, anche se qui predomina il secondo invece che il primo. E purtroppo si potrebbe anche aggiungere, non perché io apprezzi il bianconero - non solo per questioni di tifo - ma bisogna dire che del film le parti che meritano sono soltanto quelle. Le parti a colori, che sono in teoria quelle dove il punto di vista nasce dal mondo caduto, il nostro, e non dal punto di vista di un angelo, sono incredibilmente distanti dalle atmosfere del primo film. In questo secondo tempo a rovinare il film non è nient'altro che la trama, cioè la necessità di voler dare al film una dimensione narrativa sullo stile di un film di svago, disimpegnato. Così ci troviamo con pagine di pregevole riflessione che non stonano minimamente con la prima parte, e il grosso del film che prende via via sempre più le fattezze di un thrilleraccio del peggior Eastwood, del film di genere anni '80. Un vero peccato. Sicuramente influenzato da Wenders e da Il cielo sopra Berlino, forse anche volutamente omaggiato in un paio di scene ma non ne ho la certezza, è Simon magus, un film del 1999 di Ildiko Enyedi - la regista di Corpo e anima di cui troppo spesso parlo. Si capiscono in questo film quali siano i temi ricorrenti nella filmografia della regista: la presenza del mistero e del magico che entrano nella vita comune influenzandola, la difficoltà nel comunicare col proprio amato o amata. Per il resto il film si lascia guardare più che bene, anche se manca di vette e certamente sfigura rispetto all'altro film. Ultimo film, anche se di molti altri non scrivo e un po' mi spiace, è Cameriera bella presenza offresi..., di Giorgio Pastina, 1951. Il titolo potrebbe far pensare a un porno anni '70, invece si tratta di una commedia che fa il suo sporco lavoro. Impressiona leggere la schiera di sceneggiatori che collaborano: Pinelli, Age, Scarpelli, Fellini... Il film è in pratica composto da tre episodi e una trama che li lega. Cioè la protagonista è una ragazza che presta lavoro come cameriera, cambiando datore di lavoro cambia anche l'episodio e a legare il tutto è il tira e molla tra lei il fidanzato che promette sempre di sposarla e poi sempre rinvia. Il primo episodio, dove lei lavora per un regista teatrale, è il più riuscito; mentre il secondo ambientato in un caldo appartamento romano con un Aldo Fabrizi esposto in tutta la imponente fisicità è il più divertente; debole il terzo e la trama che fa da pretesto. In ogni caso per una piacevole commedia italiana si consideri anche questo titolo.
-
Giustamente citi Bresson, come ispiratore di Schrader. Per lui è uno degli autori più importanti e che più l'hanno influenzato, infatti lo stesso Taxi driver che poi citi è ispirato sia per l'evoluzione del protagonista, sia per il modo di narrare, cioè con la voce narrante del personaggio protagonista, da Bresson, in particolare dal film Diario di un ladro.
-
Vero, m'ero dimenticato.
-
Non ne sarei così certo. Lazzaro felice qualcosa si porterà a casa e anche Sulla mia pelle difficilmente resterà a bocca asciutta.
-
Sono state annunciate le cinquine per i David di Donatello. Premessa: si premiano i film usciti in Italia nel 2018. Vorrei sottolineare un'assenza.Tra i film stranieri, e ce ne sarebbero davvero tanti belli, mi spiace non trovarci Corpo e anima di Enyedi. Ma stupisce ancor di più, visti anche i i tanti che potevano figurare e non ci sono - Isle of dog, Un affare di famiglia...-, la presenza di Bohemian Rhapsody fra i cinque candidati.
-
La favorita. Efficacemente ruffiano. Nell'accezione migliore. Il film è scritto a favore del pubblico, affinché possa godersi il film e questo non è poco. Nel film c'è tutta questa splendida costruzione, quasi esasperata, di situazioni quasi grottesche; di personaggi di corte, parlamentari, nobili e regine che assomigliano più ad adolescenti in crisi ormonale o bambini capricciosi che ad adulti di rango. E questi trovano il loro corrispettivo formale nei grandangoli, spesso eseguiti con rapidi movimenti, che creano quasi anamorfosi come se si fosse in una tela di quel periodo storico. Questa caratterizzazione e tono della pellicola può esser frutto di quella che forse può apparire quasi una facile moda post-modernista, ma in realtà è pure propria di quel tempo la grande ironia, anche salace, di Swift, citato nel film, o di Pope. Si potrebbe criticare l'eccesso di anacronismi ma vorrebbe dire dimenticarsi che con gli anacronismi ci giocava spesso Pasolini; ma forse quello che più viene in mente vedendo la particolare voglia di schernire - anche per avvicinarla a noi - un'aristocrazia tanto ricca negli abiti come nei vizi è Greenaway. Gli esempi si sprecherebbero. Così il castello dove è ambientato il film appare quasi una casa delle bambole dove far divertire questi bambinelli anche cattivi, perché in fondo tutti vogliono vincere e tenere il giocattolo per sé. Forse risulta meno riuscito lo sviluppo della trama, con i vari intrighi di corte, di cui forse ne abbiamo anche seguiti fin troppi negli anni. E non è neanche importante per il film. Quello che invece conta è come il film, con il suo ritmo sempre sostenuto, è talmente ben congegnato nella sua ironia, anche venata di grottesco, che il cambio di tono finale è difficilmente accolto dallo spettatore che giustamente ne rimane estraniato, confuso e quasi inquietato. Pregevole la colonna sonora. Non è il "mio" film, ma dopo il detestevole The Lobster Lanthimos si riscatta indubbiamente, anche per merito degli sceneggiatori che non mi stupirei di vederli sorridere agli Academy.
-
Mi ricordo che ne parlasti bene di Tramonto, e proprio per questo avevo anche delle aspettative non indifferenti. Però se il discorso che fai sul senso di angoscia, caos, caduta etc. lo capisco e lo posso ricostruire intellettualmente ripensando al film, durante la visione non l'ho vissuto, anzi, come scrivevo prima per me ha pure difetti non piccoli, primi fra tutti i dialoghi. Tra l'altro in questo periodo sto recuperando Bresson. Averne il tempo di lasciarne due righe, sono arrivato a Diario di un ladro.
-
Così mi offendi, non sono così snob. Anche se vorrei esserlo...
-
Vedendo per sbaglio il trailer, li detesto, mi era sembrato la versione estesa di una di quelle ricostruzioni à la History channel. Invece leggendo te e altrove devo ricredermi. Peccato che già farò fatica a vedermi La favorita, questo lo recupererò forse un giorno.
-
Cléo de 5 à 7, Agnès Varda, 1962. Il film, nella trama, è semplicissimo. E' il racconto di due ore, dalle 5 alle 7, di una giornata - tipo non lo direi visti gli avvenimenti che accadranno- di una giovane cantante non ancora famosa, ma con l'intenzione di esserlo, anche grazie a una bellezza non indifferente. La Varda, anima femminile della Nouvelle vague, è bravissima nel raccontarci gli sguardi, i dettagli, le svolte e le giravolte nella giornata dalle ragazza. Colpisce l'agilità con cui muove la cinepresa, come riesce a incastrare tutti gli avvenimenti, tra il serio e il giocoso, senza mai perdere il ritmo sostenuto del film. Un piccolo esempio di buon cinema tipico di un'epoca, può solo far bene vederlo. Curioso, è capitato per caso, il fatto che i 90 minuti del film li abbia visti proprio tra le 5 e le 7. Martha, R.W. Fassbinder, 1974. Una giovane sembra restia a tutto ciò che concerne l'amore e gli uomini, fino a quando la morte del padre non la condurrà ad un incontro per cui rinnegherà la lei di prima. Tipica esposizione dell'amore nella visione di Fassbinder: cioè un sentimento capace di prendere e sovvertire un'intera esistenza, e sopratutto l'amore visto come prigione e tortura. Straordinaria la tensione generata dalla sceneggiatura per cui ad un certo tratto non sai più se credere alla protagonista, o se invece pensarla pazza -un poco Rosemary baby in questo. Ovviamente una nota va a Ballhaus, capace insieme a Fassbinder di ribadire in immagine il tuffo al cuore di un incontro diverso dagli altri. Tramonto, Laszlo Nemes, 2018. Budapest negli anni '10, una ragazza cerca di farsi assumere nella prestigiosa cappelleria che fu dei genitori, morti quando lei era bambina. La cifra stilistica di Nemes è precisa e inconfondibile per tutto il film come è proprio dei grandi autori. Macchina a mano che segue costantemente il protagonista, campi stretti, piani sequenza. E questo lo si era già imparato nel precedente e primo film del regista: il figlio di Saul, premio Oscar 2016. Lì veniva racconta la storia di un ebreo rinchiuso dai nazisti e obbligato a "pulire" i resti degli altri ebrei, prima che tocchi a lui la medesima fine. Il figlio di Saul sul piano dell'immagine è forse meno prezioso di Tramonto, dove abbonda il giallo oro e gli scuri in ogni scena; ma più riuscito nella resa drammatica, forse per via di una storia più inquadrata che gli impedisce di scivolare. Difatti, in Tramonto ho trovato debole sopratutto la trama che appare come artificiosamente complicata, con passaggi quasi volutamente non chiariti perché forse inspiegabili agli stessi sceneggiatori - tra cui lo stesso Nemes-, senza parlare dei dialoghi che sembrano copiati da un romanzo d'appendice. Quindi, se Il figlio di Saul riesce nel far partecipe lo spettatore del dramma vissuto da Saul seguendolo passo a passo e partecipando con lui all'orrore che vive, in Tramonto le parti che dovrebbero provocare le emozioni maggiori quasi annoiano, e se il film vuol dare testimonianza della tensione soggiacente nell'impero austro-ungarico prima della sua caduta, questa al massimo la si comprende dopo ripensando al film, non mentre si segue il film. Quindi rimane contraddittoria la mia opinione su Tramonto, da una parte così curato dall'altra così insopportabile. E questo è un po' l'effetto che mi danno i film di Malick, decidete voi se è un complimento. Inoltre ho letto nelle scorse settimane Scolpire il tempo, di Tarkovskij. Oltre a suscitarmi la voglia di rivedere i suoi film, il libro è una straordinaria lezione più che di cinema di vita. Se infatti le sue idee sul cinema sono ovviamente parziali, cioè sue, e si può concordare o meno, d'altra parte è meraviglioso il modo in cui intende la responsabilità dell'artista e dell'arte nei confronti dell'umanità. Un libro che occorre leggere non solo per quanto si può imparare sul cinema, ma sopratutto su quanto attraverso il cinema si possa imparare sulla vita.
-
Essendo stato distribuito dalla Cineteca penso proprio che il dvd uscirà fatto da loro, come fatto con Visages Villages uscito in dvd a dicembre.
-
Ma figurati, penso sia una speranza comune ritrovarti qui più spesso quando ti sarai ripresa.
-
Non certo facile per quel tempo, forse anche per l'oggi, però nel senso che magari lo si girerebbe senza troppi problemi ma al contempo privandolo della carica emozionale che inevitabilmente dovrebbe provocare un simile fatto. Ma per la verità non inedita, lo avevo fatto già Rossellini stesso, nel 1948, con Germania anno zero. Il film, strutturalmente basato sugli assiomi del neorealismo, tanto che potrebbe esserne un perfetto manuale, racconta la Berlino post guerra. Totalmente distrutta e affamata, sia la popolazione che la città, ne conosciamo i bassifondi dal punto di vista di un bambino. E' un film che nel suo proseguire diventa sempre più aspro nel racconto, dandoci sempre elementi in più per dubitare di un'uscita dalla situazione in cui si trovano i berlinesi. E, sempre nel proseguire, il film per certi versi si libera dal manierismo neorealista - comunque pregevole -, per donarci un paio di sequenze di un'acuta poeticità, sopratutto nel finale dove si spiega la dedica iniziale del film al figlio di Rossellini morto bambino. Stromboli - Terra di Dio, 1950. E' il primo film girato da Rossellini con la Bergman, e da lì non solo nacque una straordinaria unione artistica ma anche una sentimentale. La Bergman è una nordeuropea in un campo accoglienza post guerra; là incontra un soldato che decide di sposarla e portarla con se nella sua Stromboli. E lì, nell'isola, iniziano i problemi… Il film, inframmezzato da bellissime sequenze di racconto della vita dell'isola tra cui una truce e splendida pesca dei tonni, è un grande racconto di quello che potrebbe essere la lotta tra se e il mondo, il voler piegare la realtà al proprio sistema di idee e quindi il non riuscire a vivere lontano dai propri modi. Ma è anche una grande ricerca della Fede, su come sia impossibile ma necessaria accogliere l'idea di Dio, l'affidarsi a quel Dio proprio per via della propria incapacità di fare i conti con un mondo inospitale fino allo sconforto più totale. E per certi versi sono temi che quasi anticipano quelli tipici di Bergman, Ingmar. Un film eccezionale, da vedere e rivedere. Tra l'altro con una Bergman neppure doppiata. Viaggio in Italia, 1954. Coniugi inglesi a Napoli per vendere una villa ereditata, si capisce subito che il rapporto è agli sgoccioli, lei sembra quasi infatuata di un suo ex corteggiatore poeta e già morto, in ogni caso l'opposto del marito. Il film procede bene, seppure un po' schematico e appesantito dalla trama e dai toni letterari dettati dalla sua origine libresca che non riesce a tradire. Pregevole una scena in cui la Bergman entra a far parte di un gruppo di statue e sembra reciti con loro. Il finale, lontano dal tragico rosseliniano, giustamente fa gridare al miracolo - vedere per capire. Prova d'orchestra, F. Fellini, 1979. Un'orchestra, in un prestigioso e antico oratorio - straordinariamente disegnato nella sua austerità da Dante Ferretti -, viene ripresa dalla televisione che vuole realizzare un documentario sulla musica. Perciò si intervistano i componenti, ognuno legato a suo modo al proprio strumento, e ognuno più pazzo o particolare dell'altro. Tra tutti, ovviamente, spicca il direttore. Il film, piuttosto breve, è girato in tre ambienti, stanze, e il racconto è quello di una giornata di prove. Soltanto che le cose non andranno proprio bene… Il film, già allora ma anche oggi, è stato letto in relazione al clima politico dell'Italia degli anni '70, e in effetti si fatica a non uscire da una tale lettura. Ma non pensandoci del film resta una riuscita galleria di tipi e maschere che danno vanto alla capacità immaginifica del regista, se ancora servisse. in più, per come è strutturato il finale, il film lascia una plurima scelta di interpretazioni che eleva il film dalla commedia - comunque riuscita - alla riflessione di ampio raggio sulla condizione della società, forse legata ad un eterno ritorno. Non tra i suoi film più celebri, ma da recuperare e vedere con gioia.
-
Europa 51, Roberto Rossellini, 1952. Irene, cioè Ingrid Bergman, appartiene a una famiglia agiata della Roma post bellica, una città in cui confluiscono idee comuniste, pacifiste assieme alla povertà e all'indifferenza. Irene non è esente dall'indifferenza, ma a farle cambiare atteggiamento è la tragedia, ammantata da un dubbio pressoché insostenibile, che coinvolgerà suo figlio. Si apre così per Irene la porta di casa e inizia il nostro viaggio con lei nella realtà più scarnificata della capitale. Ingrid sembra accogliere le idee politiche che vogliono il paradiso in terra fatto dagli uomini per gli uomini, idee progressiste e comuniste; ma proseguendo nel film capiamo che a muoverla non è una convinzione politica, potrebbe forse essere una fede. Una fede come quella raccontataci sempre da Rossellini nel 1950 con Francesco giullare di Dio. Il film in questione, ispirato dai Fioretti di san Francesco, racconta per quadri gli avvenimenti del frate e della suo compagnia che si andava formando. Tutti in qualche modo distanti e inspiegabili dalle logiche del mondo, vivono affidati totalmente alla provvidenza. E Rossellini, come unico orpello a questa vita, a questa storia che già di per sé ha da narrare, si rende servo del racconto andando a impreziosirlo costruendo scene splendide, come quella dell'incontro in una notte stellata tra Francesco e un lebbroso, oppure non limitando il comico che può di certo esser presente nelle vita di tutti, compresa quella di dei frati, lasciando ricchi spazi ai racconti anche più frivoli ma significativi della cesura nel vivere secondo la regola di Francesco o secondo la società. Ma non è questa, non è la fede in Dio, a spingere Irene a fare ciò che fa per gli altri. Il motivo ce lo viene detto nel finale, dove il film, che fin a quel punto aveva giusto regalato qualche ottimo squarcio di regia su vasti interni o panorami urbani, oltre alla tragedia detta in apertura, nel finale ecco che erutta, complice una regia ancor più capace nella sua apparente semplicità, tutta la drammaticità dei sentimenti e del vivere di Irene, della sua assoluta inclassificabilità in ogni forma di sistema costituito, di ogni sua distanza dal pensiero sia cattolico che comunista che la costringeranno a una fine speculare a quella di Francesco d'Assisi. Se lui compie la sua missione andando nel mondo a predicare, un mondo che non è certo pronto ad accoglierlo ma che lui combatte avendo dalla sua un alleato più grande; per lei, altrettanto distante da tutti, nel suo mondo, nel mondo di oggi, non può essere una santa ma soltanto una reclusa, una da dimenticare affinché nessuno prenda il suo esempio. In un mondo che sembrava aperto a tutte le nuove idee e possibilità dopo la guerra, Ingrid è paria, per lei non c'è posto. Troppo pericolosa. Il mulino del Po, di Alberto Lattuada, 1949. Nell'Italia post unitaria vediamo la vita di una famiglia di mugnai che abitano nel loro mulino sul Po. Vita agreste, una figlia promessa sposa, e una serie di difficoltà sempre maggiori dovute da due movimenti contrari ma convergenti nell'abbattersi sul mulino. Parlo della lega dei lavoratori, una lega nata sulle idee socialiste che tanto stavano prendendo piede nell'europa di allora, che spingeva per la collettivizzazione delle terre e quindi anche contro mugnai che detenevano i mezzi di produzione. Dall'altra lo stato unitario, visto come entità distante e avversa, è il principale nemico per via delle tasse sul macinato e le eventuali sanzioni in caso di elusione. In breve, le cose per il mulino vanno male, come allegoria di ciò abbiamo una scena riccamente costruita di un incendio notturno che porterà alla distruzione del mulino e da questo alla sfaldarsi della famiglia. Il film, sempre capace nel raccontare le istanze e i sentimenti del popolo e delle altri parti, trova il suo punto d'onore nel finale, per niente accomodante, dove si trovano nella regia come i germogli di qualche celebre film che farà la storia del cinema qualche anno più in là. Ma è soltanto un'impressione, ed il finale ha comunque valore di per sé. Sceneggiatura di Fellini e Pinelli, ma se non lo avessi letto nei titoli non l'avrei mai detto. Sarà che avevo un po' di fretta mentre lo guardavo, ma 15-20 minuti in meno non avrebbero fatto male. Roma città aperta, R. Rossellini, 1945. Uno di quei titoli che non si può non vedere e elogiare per la loro grandiosità. E' forse I promessi sposi del cinema italiano, in questo sua racconto corale di un resistenza morale - esemplare una delle battute finali: non è difficile morire bene, difficile è vivere bene - prima che politica nell'Italia occupata e ancora incerta sulla sua fine; dà la possibilità di scorgere una propria via a tutta il cinema italiano che necessitava, al pari della popolazione, il modo per ripartire. Una via che forse ha perduto, ma è meglio non andare oltre. In ogni caso, il film, complici due attori come la Magnani e Fabrizi a dir poco dominanti nei propri ruoli, restituisce più che una memoria una panoramica al pubblico di allora. E' quasi un cinegiornale per lo spettatore di allora, ed è forse questa sua capacità di sintetizzare il reale in una storia così capace di emozionare a rendere il film ancor oggi di indiscutibile presa. Double vies (Il gioco delle coppie), di Olivier Assays, 2018. E' il racconto del ceto intellettuale, più o meno benestante, della Francia odierna. Coppie di mezza età con lavori che gravitano sopratutto attorno all'editoria, chi è scrittore, chi è editore, chi non legge più, e chi invece lo fa solo su tablet… L'attenzione del film è tutta posta sullo stato delle vite di oggi, così apparentemente vicine a una svolta, facilmente dettata e legata alla tecnologia e all'informatica, ma che, come nella battuta citata de Il Gattopardo: sembra che tutto debba cambiare perché nulla cambi. Il film, che all'inizio, nei suoi serrati dialoghi sulla condizione della vita di oggi, mi ricordava quasi uno dei Moretti prima maniera, è un abile lavoro di scrittura. Per il resto, mi sembra non ci sia molto da notare. In questa scrittura il film sembra però sempre apparecchiare la tavola in attesa di una portata che non arriva mai. Ma se appare per questo deludente, è forse in questo suo tratto, nel suo sottrarsi, che si trova il valore dell'opera. Come se questo mai compiersi, in questo pervadere dell'implicito che mai si palesa, vi sia lo stesso destino delle vite che racconta il film. Certo il film appare più di facile godimento se si ha un minimo interesse per la sfera libraria, ma lo prenderei in ogni caso in considerazione.
-
Una cosa che mi ero dimenticato di scrivere. Ma quanto è brutto il doppiaggio di questo film? Inascoltabile. Anche Cold war vorrei rivederlo in lingua.
-
Cold war, P. Pawlikowski, 2018. - quasi nessuno spoiler- Continua il viaggio nelle storie e nel passato del regista dopo il precedente Ida. Qui è sempre la Polonia post seconda guerra mondiale e il decennio successivo ad esserci raccontati tramite le vite di una ragazza dotata nel canto e del suo maestro di musica che la conosce mentre allestisce un ensemble di musica e balli folcloristici. Subito spicca l'1.37 (simile al 4:3 per capirci) utilizzato dal regista per dare verticalità alla scena, si può ormai ritenere una sua firma. E l'effetto goticheggiante lascia il segno sopratutto nelle scene girate in Polonia. Tra le scene più belle vi sono sicuramente quelle dove vengono eseguiti i bellissimi e spesso struggenti canti popolari, accompagnati dai tipici costumi, che anche nell'austero bianconero non perdono la loro iridescenza, e dalle coreografie non dissimili a quelle già conosciute fin dai film di Savchenko. Balli e musiche che poi vediamo come corrotte dal socialismo che vuole prenderne le forme per occuparne il posto nella cultura della Polonia segnata dai cambiamenti post conflitto mondiale. La storia d'amore prosegue lungo l'Europa e sempre accompagnata dalla musica, forse soffre un filo d'appannamento nella trama a tre quarti quando va un po' troppo di fretta o mette il pilota automatico alla sceneggiatura. Non ho capito dove sia il problema. In ogni caso resta un film splendido, che ammetto ha con con me gioco facile in quanto molti degli elementi di cui è composto sono quelli che più apprezzo nel cinema. Kieslowski non può non venire in mente, il film rimanda facilmente al suo cinema. Oppure per via del fatto che più un film tende all'est Europa più, non so perché, ne sono attratto. Insomma, se poi si dovesse confrontarlo con Roma, solo per una questione di premi perché i due film sono profondamente differenti, sceglierei per gusto Cold war. In ogni caso, il cinema americano quest'anno dovrebbe dire: saltiamo un'edizione e lasciamo fare agli altri che non c'è storia. Film in sostanza pregevolissimo, con un Pawlikowski che sa sempre bene cosa fare e come ottenerlo con la cinepresa. A riprova, dopo le tante scene di danza, una bellissima scena statica dove protagonista è uno specchio.
-
Per Dogman spero che Marcello Fonte possa essere nominato come miglior attore, dopo tutti i premi che sta ricevendo una qualche domanda se la dovrebbero fare anche da quelle parti. Mentre Tramonto di Nemes non ho avuto modo di vederlo, anche se mi sarebbe piaciuto.