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Gianfranco Zigoni

Post in rilievo

Nato a Oderzo (Treviso) il 25 novembre 1944. Cresciuto nella società, nel 1961, poco più che diciassettenne, debutta in bianconero ed in serie A. Dopo un triennio caratterizzato da sporadiche apparizioni la Juventus lo cede in prestito al Genoa. Due stagioni con i rossoblu e nell’estate del 1966 rientra a Torino dove conquista la maglia di titolare. Attaccante di ottimo talento, eccede in personalismi ed un autentico limite è il suo carattere ribelle che in molte occasioni gli costa espulsioni e squalifiche.

 

“Zigo” ha la fama da sciupafemmine ma, si rende protagonista di vere e proprie bravate da bullo di periferia. Come quando, per cercare di sconfiggere la noia dei ritiri, si diverte a sparare ai lampioni con la sua “Colt 45”. Ma Zigoni, per fortuna, non è solo questo. È soprattutto un calciatore, anzi, un fuoriclasse. «Quello è un musso, è un “figlio de puta” e poi ha troppe donne che lo sfiniscono, ma quando vuole è un purosangue».

 

Queste parole, pronunciate da Saverio Garonzi, presidente di Zigoni nei suoi anni a Verona, riassumono perfettamente la personalità ed il carattere del nostro. Pare di vederlo ancora, “Zigo”, che si toglie pelliccia e cappello, il suo abbigliamento da panchina, saluta il suo pubblico e, se gli gira bene, porta a casa la partita con un paio di prodezze.

 

Racconta: «Detestavo gli arbitri, tiranni al servizio delle squadre più potenti e fregarli non era solo un piacere, ma un dovere per chi giocava in una squadra di provincia. Sognavo di morire sul campo, con la maglia del Verona addosso. Mi immaginavo i titoloni dei giornali e la raccolta di firme per cambiare il nome allo stadio: non più “Bentegodi”, ma Gianfranco Zigoni.

Ho accumulato più giorni di squalifica che goal, perché non sottostavo ai soprusi degli arbitri. Dicono: bisogna credere alla buona fede di quei signori. Ma per favore, ho visto furti inimmaginabili ed ho pagato conti salatissimi. Una volta mi diedero sei giornate di squalifica e trenta milioni di multa perché dissi ad un guardalinee di infilarsi la bandierina proprio là. Trenta milioni negli anni settanta: all’epoca con quei soldi compravi due appartamenti. Il prezzo della mia libertà di opinione.

Ho un unico rimpianto, essermi tagliato i capelli alla Juventus, ma ero troppo giovane, non avevo la forza di ribellarmi agli Agnelli. Avevo una grande opinione di me stesso, pensavo di essere il più forte calciatore sulla terra. In campo odiavo l’avversario e lo colpivo col mio pugno, che era micidiale, fuori gli volevo bene e lo invitavo a bere un whisky.

Un giorno, alla Roma, capita di incontrare il Santos di Pelè, in amichevole, allo stadio “Olimpico”. Mi dico: “Oh, giustizia sarà fatta, oggi il mondo capirà che Zigo-goal è più forte di Pelè”. Lo aveva già detto Trapattoni dopo un Genoa-Milan 3-1 degli anni Sessanta, tripletta mia. «Ragazzi», dichiarò il “Trap” quel giorno, “Zigoni è meglio di Pelè”. Lo aveva ammesso Santamaria, gran difensore, dopo una sfida Juventus-Real Madrid: io avevo fatto impazzire il Santa, finte e tunnel, e quello a fine partita si rivolse così a Sivori: “ ‘Sto chico è migliore del *”. Ero convinto della cosa, mi sentivo più bravo di Edson Arantes e di tutti i suoi cognomi.

Poi arriva l’amichevole col Santos, vedo Pelè dal vivo e mi prende un colpo. m*****a, che giocatore. Ho una botta di depressione, di malinconia, penso che a fine partita annuncerò in mondovisione il mio ritiro dal calcio. Mi preparo la dichiarazione in terza persona: “Zigoni lascia l’attività, non sopporta che sul pianeta ci sia qualcuno più forte di lui”. Ad un certo punto il Santos beneficia di un rigore, Pelè va sul dischetto e Ginulfi, il nostro portiere, para. Allora è umano, penso, e così resto giocatore».

 

Girava in pelliccia, mangiava coniglio e polenta prima di un allenamento, erano più le volte in cui usciva dal campo con la maglietta ancora asciutta, ma sapeva come far innamorare i tifosi. Calzettoni perennemente abbassati, una stempiatura evidenziatasi ben presto nonostante sulla nuca i capelli fossero sempre lunghi, Gianfranco Zigoni dall’inizio degli anni sessanta alla fine dei settanta è stato uno dei calciatori più spettacolari. Faceva impazzire gli allenatori, ma li ripagava sul campo. «Più forte di me? C’è stato solo Pelè, io ero il corrispettivo in bianco. Solo che per avere continuità avrei anche dovuto allenarmi, qualche volta».

 

Il vocabolo estroso sarebbe fin troppo riduttivo per inquadrare “Zigo-goal”. Lui era la mosca bianca, quello che usciva dagli schemi, che non si faceva ingabbiare, convinto che il suo enorme talento sarebbe comunque emerso. Juventus, Genoa, Roma, Verona, Brescia. «In bianconero vinsi anche uno scudetto con Heriberto Herrera: mi faceva impazzire chiedendomi di andare a coprire a centrocampo. Quello era uno Zigoni vincente, ma triste».

 

Il meglio è convinto di averlo dato a Verona (sei campionati, uno in serie B) e nelle ultime due stagioni con il Brescia. «A Verona ero e sono tuttora un idolo. I bambini incidevano sui banchi delle chiese il mio nome ed i preti si arrabbiavano con me. Ci vorranno almeno altri trent’anni prima che a Verona mi dimentichino. Quando giocavo penso di aver distribuito almeno 5.000 fotografie autografate ed ancor oggi i tifosi mi chiamano nei club».

 

Arriva a Brescia l’11 ottobre 1978, al mercatino di riparazione, lo pagarono 60 milioni. Ha già 34 anni, si teme che sarebbe venuto a tirare indietro il piedino, ma serve una quarta punta dietro il trio Mutti-Grop-Mariani. «La squadra era in B e navigava in brutte acque. Mi chiamò il mio amico “Gigi” Simoni, con il quale avevo giocato nella Juventus. Giocai 21 partite e segnai 4 goals, ci risollevammo in fretta per una salvezza dignitosa».

 

L’anno successivo è quello della promozione. «Rimasi, ben sapendo che il mio compito sarebbe stato quello di uomo spogliatoio».

 

Lo ricordiamo con il numero 14 sulle spalle (al tempo in panchina andavano tre giocatori), in quei riscaldamenti sotto la tribuna del “Rigamonti”. «Entravo sempre, io dicevo al mister di far giocare i giovani, ma lui aveva bisogno della mia esperienza».

 

Quando la gara non si sblocca, dalle scalette del “Rigamonti” s’alza il coro: “Zigo, Zigo, Zigo” e Simoni, puntualmente, opera il cambio. Capita però che vada a prendere posto in panchina a partita già ampiamente iniziata. Capita proprio in un Brescia-Verona del 6 gennaio 1980: «Ad una certa età il freddo pungente fa male», commenta a fine gara, mentre Simoni lo guarda sorridendo. «L’anno della promozione non feci goal, ma dopo un pessimo inizio della squadra giocai 4 partite consecutive e facemmo sette punti. Ci diedero la spinta decisiva».

 

Ma Zigoni in che ruolo giocava? «Lerici, l’allenatore che ebbi al Genoa, diceva prima della partita: date la palla a lui. Ero un numero undici, che aveva bisogno di giocare a briglie sciolte, oggi mi farebbero stare, forse, nei Dilettanti, eppure ero il più forte. Per fare un’altra carriera avrei dovuto rinunciare a parecchie bicchierate con gli amici, e vedere qualche alba in meno, ma non ne valeva la pena». Fare il calciatore per Zigoni, che oggi allena i ragazzini nel paese natale di Oderzo, è stato un gioco. Il bello è che gli è venuto anche bene.

 

Nonché un aneddoto ulteriore, con parole sue: «Prima della gara Valcareggi mi dice: “Zigo, oggi non giochi”. Non c’era nulla da fare, dovevo andare in panchina, e visto che era una giornata molo fredda decisi di andare in campo con la pelliccia ed il cappello. Entrai in campo e ci fu un boato».

 

Nelle sette stagioni al servizio della maglia bianconera totalizza 118 presenze ed un bottino di 33 goal. Con la Juventus si laurea campione d’Italia nel 1967. Nell’estate del 1970 lascia Torino e si accasa alla Roma, dopo un biennio nella capitale raggiunge il Verona dal quale si separa al termine della stagione 1977/78 per indossare la maglia del Brescia e con le “Rondinelle”, a trentasei anni suonati, conclude l’attività a livello professionistico. Zigoni, il 25 giugno 1967, debutta in Nazionale A lanciato a Bucarest contro la Romania da Valcareggi e rimane quella la sua unica esperienza azzurra.

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