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Leevancleef

Nba, la storia dei nomi delle franchigie! Ecco come a Boston nacquero i Celtics, a Chicago i Bulls, a Los Angeles i Lakers... e tutte le altre squadre

Post in rilievo

Le origini del nome dei Cleveland Cavaliers

 

Jerry Tomko nel 1970 suggerì il nome della franchigia dell'Ohio: "Un gruppo di coraggiosi che non si arrende mai". Ma la ricompensa ci mise 40 anni ad arrivare...

 

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Febbraio 2010. A casa di Jerry Tomko arriva un pacco. Dalla confezione si legge il nome di uno “strano mittente”: Cleveland Cavaliers, la squadra che Jerry tifa da 40 anni. Lo scarta e trova un pallone autografato da tutti i membri del roster. Lo stupore dell'allora 68enne è grande, per due motivi. Il primo: ha tra le mani un cimelio firmato dai suoi giocatori preferiti. Il secondo: finalmente la franchigia di Cleveland, con un ritardo di circa 40 anni, si è ricordata di lui. E' infatti grazie a lui se LeBron James è il re dei Cavaliers.

 

CAVS — La storia comincia nel 1970, quando a Cleveland il basket è completamente assente. La fame di sport degli abitanti della città è calmata solo dai Cleveland Indians, squadra di MLB, e dai Barons (che successivamente diventeranno i Crusaders), minors di hockey. La Cleveland Arena è dunque esclusivamente terra dei Barons. Ma a Nick James Mileti, proprietario di tutto ciò che a Cleveland ha a che fare con lo sport (squadre e arena compresi), non basta. Come già successo a Boston era necessario riempire i posti del palazzetto anche quando i giocatori di hockey erano in vacanza. Mileti contatta allora la NBA e, dopo aver versato alla Lega circa 4 milioni di dollari, ottiene il permesso di iscrivere al campionato una nuova squadra. Anche questa, naturalmente, sua.

 

IL CONTEST — Come spesso accade negli Stati Uniti, quando nasce una nuova franchigia viene indetto un contest per scegliere il nome della squadra. Tutta la città può partecipare attraverso le pagine del “Plain Dealer”, il maggiore quotidiano di Cleveland, e dalle frequenze di “3WE” radio, anch'essa di proprietà di Mileti. Proprio su 3WE è sintonizzato, mentre sta andando a prendere la moglie al lavoro, il signor Jerry Tomko. Incuriosito decide di partecipare al concorso e scrive una lettera in cui motiva la sua scelta: Cavaliers. “I Cavalieri sono un gruppo di uomini impavidi e coraggiosi che non si arrendono mai”. Così dovrebbero essere, pensava Tomko, i giocatori della squadra della mia città. La lettera convinse Mileti: la squadra aveva un nome e il contest un vincitore. Il premio avrebbe dovuto essere un biglietto per assistere come ospite d'onore alla partita di debutto in NBA. Ma il regalo ci mise 40 anni per arrivare a casa di Jerry. Certo il roster dei Cavs del 2009-10 rispetto quello della prima stagione (conclusa con il record non proprio entusiasmante di 15 vittorie e 67 sconfitte) era tutta un'altra cosa. Ritroviamo così il signor Tomko, un po invecchiato, a casa ad ammirare e accarezzare il pallone autografato. E, magari, assieme a lui per condividere questo emozionante momento il figlio Brett, ex giocatore MLB e la nuora, la playmate Julia Shultz. Fortune di casa Tomko...

 

Andrea Grazioli - gds

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Le origini del nome dei Minnesota Timberwolves

 

Il preferito della franchigia di Minneapolis, che esordì nel 1989, era Blizzard. Ma ai proprietari non piaceva e chiesero a 842 consiglieri delle cittadine dello stato di scegliere tra gli altri due più popolari. I lupi sbranarono i Polars

 

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“Gun Flint”, la pietra focaia destinata all'innesco di armi le cui prime bozze risalgono ad un disegno di Leonardo agli inizi del 1500, era il nickname sul quale Tim Pope puntava maggiormente. “Pensavo potesse vincere un nome composto” disse Pope, quando venne invece premiato con un viaggio all'All-Star weekend del 1987 a Seattle per aver suggerito, tra i 10 inviati, il nome Timberwolves nel fan contest che avrebbe restituito una franchigia professionistica a Minneapolis trent'anni dopo l'addio dei Lakers e venti dopo le comparsate dei Muskies e dei Pipers nella ABA degli anni '60.

 

NIENTE BLIZZARD — Appena inoltrata la richiesta ufficiale, i due proprietari Harvey Ratner e Marv Wolfenson nell'ottobre del 1986 (4 mesi prima del sì della NBA) provarono a coinvolgere tutto lo stato del Minnesota, ricevendo nel giro di un paio di mesi oltre 6mila proposte con 1.284 nomi diversi in una lista interminabile, varia e curiosa (tra questi Lynx, dal 1999 il nome della squadra WNBA, e Lacustrians, alternativa a Lakers...). Il giudizio popolare indicò in “Blizzard” il nickname vincente, ma “Harv and Marv”, come venivano chiamati, cercavano qualcosa di maggiormente legato al territorio e chiesero così a 842 consiglieri civici delle varie cittadine dello stato di scegliere tra gli altri due più popolari, Timberwolves e Polars. I “lupi”, che vinsero con una proporzione di 2 a 1, erano il nickname perfetto per lo stato che vanta la più alta popolazione tra quelli continentali (1.200 esemplari dal 1974, quando venne definita specie a rischio) e un centro di ricerca specializzato nella cittadina di Ely.

 

AGGRESSIVI MA NON MINACCIOSI — Ed anche il logo, in un altro contest, lo creò un altro nativo del Minnesota (ma arrivarono proposte anche dalla Norvegia): Mark Thompson, artista professionista, ricevette 2.500 dollari per il disturbo. “Aggressivo, ma non minaccioso” fu la benedizione del presidente Bob Stein. Nel 1987 fece il suo esordio su un assegno di 20mila dollari andato in beneficenza. I Timberwolves, costati 32.5 milioni di dollari e rivenduti cinque anni più tardi ad un gruppo guidato da Glen Taylor a 88.5, fecero il proprio esordio solo tre anni dopo, il 3 novembre del 1989, coronando insieme agli Orlando Magic l'espansione della NBA a 27 squadre, accelerata l'anno precedente dalla nascita degli Charlotte Hornets e dei Miami Heat. Nei primi T'Wolves, contrazione del nickname sempre più diffusa negli anni, c'era Rick Mahorn, in un raro caso di un giocatore passato dall'essere titolare e uomo spogliatoio di una squadra campione NBA, i Detroit Pistons dei “Bad Boys”, al draft d'espansione. Ma per i playoff bisognerà attendere Kevin Garnett e Stephon Marbury...

 

Michele Talamazzi - gds

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Spero arrivi anche l'aggiornamento con gli Atlanta Hawks, il mio giocatore preferito di sempre è Dominique WIlkins ed ho adorato la magica era della "Pac-Man jersey".

 

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Magic, Heat e Cavaliers insulsi. sefz

Bello il retroscena sui Mavs, non lo conoscevo.

Warriors non è granché, difatti il logo incentrato sul guerriero non ha avuto fortuna. Molto più emblematico Golden State, con i corrispettivi loghi.

Ero convinto Rockets fosse per la NASA. sefz Preferisco però nettamente il vecchio logo. Quello attuale, con maglie e parquet, produce un tris tra i più brutti della lega.

Non sapevo che c'entrassero anche i cavalli, con Pacers. Ma La Mecca del basket non era NYC?

Timberwolves .allah Lacustrians uaua

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Atlanta Hawks: tre città per una squadra. In principio erano i Bisons...

 

La franchigia ha cambiato città 4 volte in 22 anni prima di trovare casa in Georgia. Ecco come da Bisons, il nick che aveva negli anni Trenta, è diventata Hawks

 

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Quando si pensa alla storia e alla tradizione NBA può capitare che tra i primi nomi che saltano alla mente non vi sia quello degli Atlanta Hawks. Ed è un errore. La loro vicenda ha inizio nel 1935, passa attraverso gli anni di Pistol Pete Maravich e dello Human Highlight Film (all'anagrafe Dominique Wilkins) per arrivare al 2015, anno in cui il team di Budenholzer ha avuto il miglior record della Eastern Conference. Il volo degli Hawks parte dunque molto lontano sia nel tempo che nello spazio: a un migliaio di kilometri da Atlanta, a Buffalo precisamente, dove nella prima metà degli anni '30 giocano i Bisons.

 

TRE CITTÀ PER UNA SQUADRA — Buffalo Bisons debuttano nel 1936 nella Midwest Basketball Conference. Quando scendono in campo impressionano l'intera Lega schierando come centro Hank Williams, primo giocatore di colore nel Midwest. Ma i Bisons passano anche annate di inattività. Fino al giorno in cui Ben Kerner (propietario della franchigia) decide di trasferire la sua squadra sulle sponde del Mississipi nella zona nota come Tri-Cities, un conglomerato formato da Rock Island e Moline, città dell'Illinois, e da Davemport, Iowa.

 

DAI BUFALI AI FALCHI — Il nome Hawks trova la propria ragion d'essere nella storia della zona delle Tri-Cities: nel 1832, anno della famosa Black Hawk War. Un gruppo composto da 3 tribù di nativi americani, Sauks, Maeskwakis, guidati dal capo indiano Black Hawk, decidono di attraversare il Mississipi per riprendersi le terre native dell'Illinois, spedizione che però durò solo 3 mesi. Kerner, assieme alla dirigenza della franchigia, decide così di chiamare la propria squadra Blackhawks. Ma nonostante il forte richiamo alla storia del territorio, e le ottime annate di debutto in NBA sotto la guida di Red Auerbach, i Blackhawks, nel 1951, sono costretti ad emigrare. Destinazione Milwaukee, dove però il nome perde di identità e viene, per questo motivo, tagliato in Hawks. La squadra fatica a decollare e Kerner decide di preparare nuovamente le valigie. Si va nel Missouri, a St. Louis.

 

L'ANELLO E IL VOLO PER ATLANTA — A St. Louis la franchigia conosce i suoi anni migliori. Quelli della grande rivalità con i Celtics dell'ex Auerbach e dell'anello nel 1958. La notorietà degli Hawks cresce e il piccolo Kiel Auditorium non basta più. Kerner chiede alle autorità di St. Lous il permesso di costruire un'arena più grande, ma l'idea viene rispedita al mittente. Nel 1968 la franchigia viene ceduta a Tom Cousins e Carl Sandres, che decidono di trasferire la squadra per la quarta volta in 22 anni. Si va in Georgia, ad Atlanta. Dopo tanti aerei e trasferimenti questo è, almeno per ora, il volo di sola andata. Ecco a voi gli Atlanta Hawks...

 

Andrea Grazioli - gds

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Attendiamo fiduciosi quello sugli Spurs .sisi

 

Le origini del nome dei San Antonio Spurs

 

Nati a Dallas come Chaparrals, dal nome della sala riunioni dell'hotel in cui venne fondata la franchigia. Ma il trasferimento nella città dell'Alamo portò un nuovo nome (attraverso contest popolare). E nuovi successi

 

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Boscaglie spinose e speroni. Roba da cowboy texani. Ma la franchigia che ha dominato l'era del post-Jordan nasce lontano da San Antonio, in una città che diventerà successivamente, assieme a Houston, una delle rivali del derby a 3 che infiamma il Texas. È il 1967 quando, nella Chaparral Room dell'Hotel Sheraton di Dallas nascono i predecessori degli Spurs, i Dallas Chaparrals, team della ABA.

 

GLI ANTENATI — Una squadra che prende il nome da una sala riunioni di un hotel? Certo, si potrebbe pensare ad un primo sguardo, che la fantasia non è di casa in Texas. E non siamo così lontani dalla realtà: la dirigenza dell'allora nascente franchigia dei Chaparrals organizzò una riunione proprio perché il nome per la squadra stentava da arrivare. A mali estremi, estremi rimedi. Il Chaparral, termine di origine spagnola, è lo spinoso sottobosco che popola i paesaggi mediterranei e che è possibile ritrovare anche nei territori texani e californiani. Ma non solo. Chaparral è anche “l'uccello corridore”, quello, per intendersi, che Willy il coyote non è mai riuscito a braccare nel famoso cartone animato. Quel giorno allo Sheraton, da un iniziale stato di confusione e indecisione, si trovò nome e logo: un uccello intento a giocare con la palla a spicchi. Per fortuna di Gregg Popovich, che difficilmente avrebbe sopportato un logo simile, la squadra si trasferì a San Antonio passando attraverso diversi cambiamenti, tra i quali nome e grafica.

 

SAN ANTONIO SPURS — È il 1973 quando i Chaparrals si trasferiscono a San Antonio. Il pubblico di Dallas, a causa degli altalenanti risultati, non ne fa una tragedia. Già nel 1970-71 lo staff dirigenziale, a causa della scarsa affluenza al Moody Coliseum di Dallas, provò il tutto per tutto cambiando il nome in Texas Chaparrals. L'idea era di attirare pubblico ampliando all'intero stato il bacino d'utenza, ma l'esperimento non riuscì e due anni dopo la franchigia venne venduta ad una cordata di 36 imprenditori di San Antonio, con a capo Angelo Drossos e Red McCombs. La prima decisione? Evitare riunioni in hotel e indire un contest aperto a tutta la cittadinanza per trovare un nuovo nome. I nickname che arrivarono in finale furono Spurs (speroni) e Gunslingers (pistoleri). E la scelta, anche per evitare problemi, ricadde su Spurs. L'uccello “giocatore-corridore” venne sostituito dall'ormai storico logo a “U” e i colori divennero il nero argento, al posto del bianco, blu e rosso dei Chaparrals. Gli Spurs sopravvivono alla fusione ABA-NBA del 1976, ma dovranno attendere 26 anni per appendere il primo stendardo

al soffitto dell'AT&T Center. Il 1999 è l'anno in cui la coppia Robinson-Duncan domina in ogni canestro d'America. Dai Big two ai big three (Duncan, Ginobili, Parker): i titoli diventano 5. Quello degli Spurs è riconosciuto come un dominio strutturale, sistematico, ma sempre silenzioso e avvezzo ai riflettori. A parte quelli che illuminano i parquet, naturalmente.

 

Andrea Grazioli - gds

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Phoenix Suns: tropicali si, ma "cactus" mai.

 

Jerry Colangelo, nel 1968 il più giovane g.m. della Nba, sceglie per la neonata franchigia un nome che richiamasse al clima tropicale della città. Con buona pace di chi voleva chiamarli Cactus Giants

 

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Mark Bagnall aveva 12 anni quando, il 23 gennaio 1968 (esattamente il giorno dopo che l'NBA approvò la nascita di una franchigia a Phoenix e Milwaukee), inviò uno dei 28mila suggerimenti nel “name the team contest” promosso dall'Arizona Republic. Scrisse una lettera a Karl Eller, uno dei proprietari nella cordata capitanata da Richard Bloch che con 2 milioni di dollari prese parte all'espansione, proponendo il nome “Firebirds”. L'oriolo, o “rigogolo”, passero riconoscibile per il piumaggio dai colori accesi ma soprattutto per le sue doti canore, molto diffuso in Arizona. Non ricevette mai una risposta. Firebirds venne associato 18 anni più tardi, sempre a Phoenix, ad una franchigia di una lega minore di baseball, fino ad allora Phoenix Giants perché affiliata ai San Francisco Giants. Il vincitore di quel contest venne premiato con un viaggio alle Hawaii. “Qualcuno deve aver letto la mia lettera” scherzò Bagnall in un'intervista qualche anno fa.

 

IL CLIMA DI PHOENIX — L'NBA salutò così la nascita dei Phoenix Suns, nonostante i tanti pareri negativi, non ultimo quello di J. Walter Kennedy. L'allora commissioner accolse la richiesta di Bloch con un “Phoenix? Devi essere matto”. Nonostante un'area metropolitana in forte espansione, Phoenix era considerata un mercato troppo piccolo, lontano da tutto e soprattutto una città troppo “calda” per il proprio clima tropicale. Kennedy cambiò idea dopo un rapido tour in città, parlando con ragazzi, negozianti e qualche tassista, toccando con mano l'entusiasmo della città. E proprio le alte temperature dell'Arizona indussero Jerry Colangelo (allora, a soli 28 anni, il più giovane general manager della NBA dopo una parentesi a Chicago come scout e assistente dei Bulls) a scegliere il nome “Suns”, proposto tra gli altri da Selinda King, premiata con 1.000 dollari e due abbonamenti della prima stagione pro di Phoenix. Venne preferito a Scorpions, Rattlers, Thunderbirds, Wranglers, Mavericks, Tumbleweeds, Mustangs, Cougars in un contest che comprendeva almeno 13 nomi composti con “Sun” ed altri più stravaganti come “Cactus Giants”.

 

I PRIMI PRO' — I Suns di Dick Van Arsdale, del futuro Hall of Famer Gail Goodrich e di David Lattin, il centro della Texas Western campione NCAA resa celebre dal film Glory Road, furono la prima vera squadra del Midwest in una NBA fino ad allora sbilanciata tra costa Est e costa Ovest, e la prima unica franchigia professionistica in Arizona fino all'arrivo dei Cardinals della NFL (da St. Louis) nel 1988. E a proposito di premi persi, curiosa è anche la storia del logo: il club pagò ben 5.000 dollari un'artista locale per disegnarlo, ma rimase deluso dal risultato. Alla fine, il pallone contornato dai raggi del sole, solo leggermente modificato negli anni e diventato un'icona, fu una creazione di Stan Fabe, proprietario di una stamperia a Tucson, che ricevette un rimborso di 200 dollari...

 

Michele Talamazzi – gds

 

Charlotte Hornets, bisogna tornare al 1780...

 

La città del North Carolina era la più importante della zona ed il centro dei moti rivoluzionari. Per rintracciare l'origine del suo nome si deve tornare al 1780, quando volle conquistare la sua indipendenza dalla Gran Bretagna

 

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Oggi è amata per essere la franchigia di Michael Jordan che è da sempre affezionatissimo al North Carolina, dove ha fatto l'università (e sicuramente i Tar Heels sono, da anni ormai, la squadra meglio vestita della NCAA). La squadra di Charlotte, prima di essere acquisita da MJ ha passato anni con risultati alterni. Dal trio delle meraviglie Bogues-Johnson-Mourning, al trasferimento a New Orleans e il ritorno a casa. Ma perché in North Carolina sono così affezionati agli Hornets? La ragione la ritroviamo proprio nel nome.

 

LA 24ESIMA SQUADRA — La vicenda dei calabroni ha inizio nel 1985, quando la NBA era composta da sole 23 squadre. L'allora commissioner David Stern voleva aumentare il numero di franchigie nella Lega, un progetto che sarebbe durato all'incirca 3 anni e che avrebbe visto aggregarsi 4 nuovi team. L'imprenditore George Shinn, originario di Kannapolis, abituato a sentire il grande amore del North Carolina per il basket NCAA decise di portare una franchigia NBA a Charlotte. Tra lo scherno della stampa nazionale USA, che non considerava la città adatta ad ospitare una squadra così importante, Shinn organizzò una cordata con altri importanti businessmen della zona. Il 5 Aprile 1987 David Stern chiama Shinn: “Sarete voi la 24esima squadra della NBA”. Ma un dubbio sorge nella mente della dirigenza: che cosa scriveremo sulle magliette?

 

IL VOLO DEI CALABRONI — Charlotte Spirit. Inizialmente era questo il nome accreditato. Ma il contest “name the team” fece cambiare idea allo staff. La 24esima squadra selezionata da Stern si chiamerà Hornets. Per scoprire cosa c'è sotto questo nickname, e assieme il fascino che esercita sui fan di Charlotte, dobbiamo tornare fino al 1780. La contea di Mecklenburg, nel North Carolina, fu una delle prime a volersi dichiarare indipendente dalla Gran Bretagna. Charlotte era la città più importante della zona ed il centro dei moti indipendentisti. Quando arrivò, con l'intento di sedare le proteste, il generale Charles Cornwallis gli abitanti di Charlotte gli diedero un benvenuto molto “caldo”: una astutissima trappola. Gli uomini posizionati all'ingresso del paese, una volta avvistati nelle vicinanze Cornwallis e i suoi uomini iniziarono improvvisamente a sparare, costringendo l'armata britannica a cercare rifugio verso il centro del paese, dove ad attendere vi era un altro battaglione. Molti scapparono, altri non uscirono più dalle mura di Charlotte. Non fu l'unica occasione in cui Cornwallis cercò di prendersi la contea di Mecklenburg. Ma non vi riuscì mai. L'ultima volta che ci provò si ritirò urlando ai suoi: “Andiamocene da questo nido di calabroni”. Una storia fatta di voglia di libertà, indipendenza e coraggio. Ecco perché Charlotte ama così tanto i suoi Hornets.

 

Andrea Grazioli - gds

 

Le origini del nome dei Toronto Raptors

 

I canadesi organizzarono un contest tra i tifosi per scegliere il nome della nuova franchigia: vinse quello che richiamava i dinosauri di Jurassic Park, appena usciti al cinema

 

Toronto, la patria dell'hockey su ghiaccio. Ma come è già successo per altre franchigie, tra dischetti e palla a spicchi vi è molto in comune. Ad esempio? I palazzetti. Soprattutto se vuoti, durante la offseason. Ma in Canada la voglia di basket c'è e si sente. I Raptors non sono la prima squadra di basket professionistico di Toronto. Nel 1946 debuttano nella BAA (Basketball Association of America) gli Huskies. Un amore lungo però appena un anno. Nel 1947 gli allora proprietari Cradock e Shannon chiusero le porte del Maple Leaf Garden. Nonostante il lungo letargo, che il clima canadese favorisce, dopo 50 anni il basket a Toronto si risveglia. Nel 1995 una squadra di giovani dinosauri correrà sui parquet della NBA. Le loro originali divise, nella seconda metà degli anni '90, impazzeranno in tutta Europa. La 15 di Carter e, in Italia, la storica numero 4 di Vincenzo Esposito.

 

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The Raptor, la mascotte di Toronto. Reuters

 

ARRIVANO I RAPTORS — Siamo nel 1993. Al cinema esce Jurassic Park e il commissioner David Stern annuncia il progetto di “espansione” della NBA in Canada. Un accostamento strano solo ad una prima occhiata. John Bitove è il capo del progetto Raptors. L'imprenditore del settore alimentare versa nelle casse NBA quasi 130 milioni di dollari. Dopo una maxi spesa come questa era necessario trovare un nome all'altezza. Bitove vuole coinvolgere la comunità. All'inizio i fans vorrebbero riportare indietro il tempo, e chiamare la nuova squadra Huskies. Ma la dirigenza non è d'accordo. Il contest lanciato attraverso le principali testate giornalistiche locali impazza. Arrivano 2000 nickname. La top-10 finale includeva solo nomi di animali: Beavers, Bobcats, Dragons, Grizzlies, Hogs, Scorpions, T-Rex, Tarantulas, Terriers e, naturalmente, Raptors. Tanta fantasia da film dell'orrore ha però un fondamento: la preistoria-mania che imperversa a Toronto e nel mondo grazie, appunto, a Jurassic Park. Anche Bitove si convince: vada per Raptors.

 

I 2 CUGINI — I dinosauri cominciano a mordere della stagione 1994-95, ma per i primi due anni collezionano risultati altalenanti. Ma qualcosa sta per cambiare. Dal Draft del 1997 con la nona scelta i Raptors si aggiudicano Tracy McGrady. L'anno dopo in uno scambio con i Warriors arriva in Canada il rookie Vince Carter. I due si dicono essere cugini di terzo grado. Hanno entrambi ereditato, da qualche lontano avo, un talento incredibile e un atletismo spaventoso. Le top 10 delle giocate della settimana diventano così un affare di famiglia e i Raptors conoscono il loro momento di massima notorietà. Soprattutto per Carter, che vede tutto il Canada, e gli USA, impegnati a trovargli il giusto soprannome. Air Canada, per le sue incursioni nello spazio aereo canadese, Vinsanity, gioco di parole tra il nome Vince e “insanity”, la follia delle sue giocate e che comunica ai suoi fans. Ma sarà, come spesso accade, Shaq ad azzeccare il soprannome giusto: “Half man-Half amazing”. Metà uomo- metà meraviglia. Quella provata a vedere questo strano velociraptor volante.

 

Andrea Grazioli - gds

 

I Patrioti... dell'amore fraterno: Philadelphia 76ers

 

Nome patriottico che richiama la storia della città in cui nel 1776 venne firmata la Dichiarazione d'Indipendenza. Ma la storia della franchigia comincia a Syracuse, New York. Con un altro nome patriottico

 

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La città dell'amore fraterno. Terra di incroci, di arrivi e partenze. Ma i Sixers non nascono a Philadelphia e originariamente non avevano questo nome. Prima di incantare Philly devono attendere 17 anni. Sulla via verso la nuova casa incroceranno anche i Warriors, che negli stessi anni lasciano la Pennsylvania in direzione San Francisco.

 

NATI A SYRACUSE — La storia inizia nel 1946 a più di 400 kilometri da Philly. I Syracuse Nationals sono la franchigia più importante della NBL (National Basketball League), la squadra che più contribuisce a dare legittimità alla Lega, considerata “minore” rispetto alla rivale BAA (Basketball Association of America). Il proprietario è l'italo americano Daniel Biasone, che rimarrà a capo dei Nationals fino al giorno della cessione, della partenza e della nascita dei 76ers. Il 1963 è l'anno in cui la franchigia abbandona lo stato di New York. Si va a Sud-Ovest verso Philadelphia, che sta per rimanere orfana della propria squadra, i Warriors. Sono anni frenetici per il basket americano. Franchigie che nascono, si trasferiscono o vengono cedute. Dopo quasi 20 anni Biasone lascia. I Nationals, hanno dei nuovi proprietari: i magnati della carta stampata Irv Kosloff e Ike Richman. La loro prima mossa è trasferire la franchigia in Pennsylvania. La seconda cambiargli nome: nascono i 76ers.

 

BASKET E STORIA — C'è qualcosa che accomuna Nationals e 76ers. Il patriottismo. La scelta del nuovo nome avviene attraverso un concorso vinto da Walt Stahlberg, originario del New Jersey che ricorda all'America intera che Philadelphia è la città in cui il 4 luglio 1776 è stata scritta la Dichiarazione d'Indipendenza. Il documento, ufficialmente richiesto e siglato da Thomas Jefferson, ha chiari riferimenti ai principi illuministici, come quello dell'uguaglianza originaria di tutti gli uomini. Se Philly avrà una nuova squadra di basket il suo nome dovrà richiamare a quella data e a quei concetti. E' così che nascono così i Philadelphia 76ers. Il nickname, per motivi di comodità giornalistica, verrà subito modificato in Sixers: diventerà famosissimo, sia sulla carta stampata che sulle maglie.

 

UNO SGUARDO AL FUTURO — La città dell'amore fraterno non potrà che avere un rapporto particolare con i suoi giocatori simbolo. Ce ne sono stati tanti che hanno fatto la storia dei Sixers. Da Wilt Chamberlain a Julius Erving, passando per Charles Barkley e Allen Iverson. Giocatori immensi e uomini difficili, ma amati visceralmente dall'intera città. Oggi è tempo di ricostruzione. Okafor, favorito secondo gli stessi colleghi al premio di matricola dell'anno 2015-16, e Noel sono le basi del futuro dei Sixers. Ci sarebbe anche Embiid, ma per vedere all'opera la terza scelta al draft 2014 bisognerà aspettare un altro anno. Non è l'attesa, però, una delle caratteristiche dell'amore? E a Philadelphia ce ne sarà tanto anche per lui...

 

Andrea Grazioli - gds

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La tradizione della Motor City per i Detroit Pistons

 

Il nickname della franchigia sembra fatto apposta per Motown, ma la squadra mosse i primi passi a Fort Wayne, Indiana. I pistoni erano il business della famiglia che li ha fondati. E che nel 1957 li trasferì nella città delle automobili

 

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Reggie Jackson con la maglia che ricorda la tradizione automobilistica di Detroit. Reuters

 

I Pistoni della Motor City. Mai, come in questo caso, il nome di una franchigia è tanto in simbiosi con l'identità della propria città. Ma, a ben vedere, i Pistons nascono lontano da Detroit e solo per caso dopo molto tempo approdano nella città dei motori. Ma già allora qualcosa univa i Pistons a Motown: gli affari della famiglia Zollner.

 

ORIGINI A FORT WAYNE — L'anno è il 1941. La località Fort Wayne, Indiana, terra di basket per antonomasia. Fred e Janet Zollner sono due fratelli, proprietari di una delle più importanti fonderie d'America specializzata nella produzione di pistoni per macchine, camion e treni. Come è facile immaginare i principali clienti sono la Ford e la General Motors, con sede a Detroit. I fratelli Zollner non sono dei novellini dello sport: nel 1941 sono già proprietari di una squadra di softball conosciuta come “Zollner Piston softball team”. Ma, si sa, nell'Indiana si ama “lanciare” principalmente la palla a spicchi, e lo si fa ovunque, nelle palestre come nei cortili sterrati delle fattorie. La fame di basket inizia ad attanagliare anche Fred e Janet che decidono, così, di fondare i “Fort Wayne Zollner Pistons”. Nessun concorso aperto ai tifosi, nessuna stressante seduta con lo staff. Le idee sono ben chiare: promuovere attraverso lo sport la loro attività. Il primo logo della franchigia sarà, neanche a farlo apposta, un omino fatto di pistoni intento a palleggiare. Dal softball al basket cambia ben poco, sono i Pistons a portare in giro per il paese il nome di Fort Wayne.

 

MOTOWN — Dal 1941 al 1948 la squadra di Zollner gioca nella NBL (National Basketball League), con ottimi risultati. Dopo i 2 titoli vinti nel '44 e nel '45, il nome dei Pistons inizia a circolare e la fama si ingigantisce. Fred Zollner nel frattempo diventa un personaggio centrale per la storia del basket americano. È grazie all'iniziativa del proprietario dei Pistons, infatti, che i dirigenti delle franchigie di NBL e BAA (Basketball Association of America) si cominciano a trattare quell'intesa da cui, nel 1949, nascerà la NBA. Naturalmente i Pistons sono una delle prime squadre a prender posto nella nuova Lega. Il roster è buono, le numerose aspettative vengono in parte accontentate raggiungendo per 8 anni consecutivi i Playoff. Ma alla famiglia Zollner Fort Wayne inizia ad andare stretta e iniziano seriamente alla possibilità di trasferirsi. L'Indiana rimane orfana della squadra che ha portato un titolo a Fort Wayne per 2 stagioni consecutive. Ma dove potranno mai andare i Pistons? Nel 1957 l'annuncio ufficiale: si va a Detroit. La squadra naturalmente non ha bisogno, e non ha mai pensato, di cambiare nome: Detroit Pistons suona perfettamente.

 

Andrea Grazioli - gds

 

Le origini del nome dei Portland Trail Blazers

 

La franchigia dell'Oregon, che non ha mai cambiato sede da quando è nata nel 1970, richiama alla storia della città, punto di arrivo dei flussi migratori dal midwest. E anche il logo riflette l'originalità della squadra

 

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Dal fiume Missouri all'Oregon Country. No, non è la solita storia di una franchigia professionistica che migra da una città ad un'altra. Eppure quella dei Portland Trail Blazers, una delle otto squadre NBA nate prima degli anni Settanta a non aver mai cambiato sede, è ugualmente una storia di migranti. Meglio, di pioneri. Tra il 1841 e il 1869, prima della diffusione delle ferrovie, l'Oregon Trail era infatti una delle principali strade di migrazione degli Stati Uniti: a percorrere i 3.500 chilometri che collegavano una parte del paese all'altra erano soprattutto coloni, cow-boy, minatori e uomini d'affari.

 

PIONEERS — Portland era il punto d'arrivo dell'Oregon Trail, e l'Oregon Trail fu il punto di partenza della storia dei Trail Blazers. Che in realtà avrebbero dovuto chiamarsi proprio “Pioneers”, il nickname scelto dal fan contest indetto nel 1970, l'anno in cui il promoter sportivo Harry Glickman riuscì a coronare il proprio sogno (rimasto nel cassetto dal 1955 quando l'NBA bocciò l'espansione in Oregon) con l'aiuto degli imprenditori Bob Schmertz, Larry Weinberg e Herman Sarkowsky garantendo i 3.7 milioni di dollari necessari per iniziare, insieme a Buffalo Braves (oggi i Los Angeles Clippers) e Cleveland Cavaliers. Hickman aveva visto giusto: tra il 1977 e il 1995, Portland fece registrare il record di 814 sold-out consecutivi, poi battuto solo da Cleveland Indians e Boston Red Sox. Pioneers, però, era già il nickname del locale Lewis & Clark College, tra le altre cose intitolato proprio alla memoria di due pionieri, Meriwether Lewis e William Clark. Trail Blazers era il secondo nome più popolare con 172 voti tra i 10mila pervenuti via posta, ed anche nel comune diminutivo di “Blazers”, riflettendo lo spirito pionieristico, era perfetto per la prima franchigia pro e della NBA dello stato dell'Oregon e calzante con uno sport veloce e dinamico. L'annuncio venne dato il 13 marzo 1970, davanti agli 11mila spettatori di una partita tra New York Knicks e Seattle Supersonics al Portland's Memorial Coliseum. Blake Byrne, general sales manager di KPTV e uno dei 172 votanti del nickname, venne estratto a sorte vincendo due abbonamenti.

 

IL LOGO — A caratterizzare i Trail Blazers è il fatto di essere apparentemente l'unica squadra sportiva americana a portare questo nome, e di avere uno dei rari loghi astratti nel mondo sportivo professionistico. Interpretazione grafica disegnata da Frank Glickman, nientemeno che il cugino di Harry, e famoso come il “pinwheel logo” (girandola, ndr), rappresenta cinque giocatori contro altri cinque, e fino a metà anni Novanta aveva un orientamento verticale, prima del restyling (con l'inclinazione di 45° e l'ingresso del colore argento accanto a rosso e nero) ad opera di Steve Sandstrom, artista vincitore di cinque Clio Awards e grande tifoso dei Blazers.

 

Michele Talamazzi

 

Pelicans, simboli della New Orleans che non muore mai

 

È il nickname più recente dell'Nba: dal 2013 identifica la squadra della Lousiana, sconvolta dall'uragano Katrina e dal disastro ambientale della Deepwater Horizon

 

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Dalla bandiera della Louisiana alle maglie della nuova franchigia di New Orleans, sedotta e abbandonata dai Jazz negli anni Settanta prima di rinascere nel 2002 come Hornets e traslocare temporaneamente a Oklahoma City a causa dell'uragano Katrina. Il pellicano bruno è simbolo dello stato della Big Easy, e dal 2013 anche il nickname più recente dell'Nba. Al tempo stesso, però, è probabilmente anche il più antico. Le sue origini sono infatti ultracentenarie: i New Orleans Pelicans esistettero già, tra il 1887 e il 1959 e, per una stagione, nel 1977, come squadra di baseball della città, che partecipava ad una lega minore, la Southern League, e nel 1910 vinse il titolo trascinata dall'esterno “Shoeless” Joe Jackson.

 

CAMBIO — Gli attuali Pelicans nascono invece dai vecchi Charlotte Hornets, che all'inizio del nuovo millennio traslocarono per ragioni economiche. “Abbiamo perso 15 milioni di dollari quest'anno, l'anno prossimo rischiamo di perderne 20”, dichiarò Ray Woolridge, uno dei proprietari, che si chiamò fuori proprio quando George Shinn annunciò l'abbandono del North Carolina, dove i dati di pubblico erano in forte calo. Il voto dei proprietari Nba fu quasi unanime (28-1), e gli Hornets si trasferirono in Louisiana mantenendo il nickname. “Il nome Hornets non significava nulla per la nostra comunità”, disse il proprietario Tom Benson, già patron dei New Orleans Saints della Nfl dal 1985, che nell'aprile del 2012 comprò la franchigia per 338 milioni di dollari dall'Nba (che la rilevò da Shinn, costretto a venderla causa problemi finanziari e giuridici) e annunciò il prossimo cambio di denominazione, lasciando che il nome Hornets tornasse a Charlotte.

 

SIMBOLO — Pelicans venne scelto tra oltre 100 nomi presi in considerazione. “Il nostro stato è stato colpito duramente negli ultimi anni, e ha dimostrato resistenza, capacità di lottare e rialzarsi. In questo senso il pellicano riflette la nostra cultura”, disse Benson. Simbolo anche, quindi, dell'inizio di una nuova era, quella destinata ad essere contraddistinta da Anthony Davis, e della voglia di voltare pagina, dopo Katrina che costrinse la squadra al trasloco temporaneo a Oklahoma City tra il 2005 e i 2007 e dopo la marea nera causata nel 2010 dal disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, di cui le immagini più viste furono proprio quelle dei poveri pellicani ricoperti di petrolio. Se era difficile trovare un nome bello e calzante per la città come fu “Jazz” negli anni Settanta, forse era anche impossibile trovare qualcosa di più significativo di Pelicans.

 

Michele Talamazzi - gds

 

Potenza ed energia: gli Oklahoma City Thunder

 

Nel settembre del 2008 venne ufficializzato il nome della nuova franchigia. Bennett: "La potenza e l'energia della parola, in sintonia con l'identità della squadra"

 

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Kevin Durant, ala piccola degli Oklahoma City Thunder. Ap

 

“Se non ti piace il tempo, aspetta cinque minuti”. Clay Bennett riprese un vecchio detto del comico Will Rogers, conosciuto come 'figlio prediletto dell'Oklahoma', per cogliere in contropiede le possibili critiche quando, il 3 settembre del 2008, ufficializzò a Leadership Square, nella downtown di Oklahoma City, il nickname della nuova franchigia. Thunder divenne subito il peggior segreto non mantenuto, visto che era noto già da diverse settimane. L'Abc lo svelò a metà luglio. Il sito Nba associò il link NBA.com/thunder alla pagina del club. Infine, il nome Oklahoma City Thunder comparve nel calendario sul sito dei Magic. “Era difficile mantenere il segreto” spiegò Bennett. “Ci piace l'energia e la potenza della parola, in sintonia con l'identità che vogliamo abbia la squadra”.

 

LA SCELTA — Da un mazzo di 64 nomi, Thunder venne preferito, tra gli altri, a Wind, Marshalls, Renegades, Energy, Bison, Twisters e Barons. E venne ben accolto dai tifosi: il giorno seguente il club registrò vendite record per il merchandising. I riferimenti del nuovo nickname? Oltre a quello climatico (l'Oklahoma è parte della Tornado Alley, regione geografica particolarmente soggetta a tempeste), ci sono quelli alla 45a Divisione della Fanteria dell'esercito statunitense, il cui quartier generale è a Oklahoma City e che nel 1939 rimpiazzò la svastica, ormai associata al partito nazionalsocialista di Adolf Hitler, con un altro simbolo appartenente alla cultura indiana chiamato Thundebird (“uccello del tuono”), e ad uno dei successi più famosi del popolare cantante country, Garth Brooks, intitolato “Thunder Rolls”.

 

BANDIERA — “Vogliamo davvero rappresentare l'Oklahoma” disse Bennett dando vita a quella che divenne ufficialmente, non considerando il passaggio forzato degli Hornets tra il 2005 e il 2007, la prima franchigia professionistica dello stato, il cui colore della bandiera, lo sky-blue, venne scelto per la maglia insieme alle finiture arancioni e gialle a rappresentare il tramonto dell'Oklahoma. Magari non un nome perfetto come in altri casi in Nba, ma certo più calzante di Supersonics, nickname che nel trasloco da Seattle non si spostò, insieme a colori e logo. Nella causa intrapresa nel giugno del 2008 dalla città di Seattle contro Bennett (che aveva acquistato la franchigia nel 2006 da Mr. Starbucks, Howard Schultz, per 350 milioni, e per portare la squadra a Oklahoma City ruppe un contratto in essere ancora per due anni con la Key Arena), la città della pioggia mantenne il proprio nickname e la propria storia, nella speranza, ancora intatta, che un giorno l'Nba torni in città. Intanto, però, una tempesta si era già portata via Kevin Durant e una nuova era...

 

Michele Talamazzi - gds

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Il "veliero" che traghettò... i Celtics! Ecco i Los Angeles Clippers!

 

Il nome, veliero, venne scelto quando la franchigia si spostò da Buffalo a San Diego, da dove poi nel 1984 Donald Sterling la trasferì a Los Angeles. Ma l'uomo che gliela vendette, Irv Levin, aveva comprato i Boston Celtics

 

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I Celtics in California? Giammai. Può suonare bizzarro, ma è il motivo per cui nacquero gli attuali Los Angeles Clippers. Irv Levin, produttore cinematografico e teatrale, era riuscito ad acquistare Boston nel 1974, due anni dopo un primo tentativo andato a vuoto per un conflitto di interessi (due dirigenti della sua compagnia, la National General Corporation, erano tra i proprietari dei Sonics). Sebbene fosse un nativo di Chicago, Levin odiava il freddo e voleva portare la sua squadra in California. Si inventò così uno “scambio” di proprietà con il numero uno dei Buffalo Braves, John Y. Brown, il boss della catena Kentucky Fried Chicken. E spostò la sua nuova franchigia sulla costa Ovest, a San Diego, dove presero vita i Clippers.

 

LO SCAMBIO — Oggi la “Boston-connection” sull'altra sponda di LA è formata da Doc Rivers e Paul Pierce. Tecnicamente, però, gli antenati degli attuali Clippers, conosciuti come franchigia perdente, sono proprio i Celtics. “Almeno da un mero punto di vista legale” spiegò qualche anno fa Russ Granik, nel 1978 consigliere dell'assistente general manager dell'NBA. Questo perché le due proprietà si scambiarono di fatto la franchigia, mossa approvata del board NBA con 21 voti favorevoli ed uno solo contrario. Una trade in cui vennero inseriti anche giocatori, il più famoso Nate Archibald, futuro Hall of Famer in maglia Celtics. Di fatto, la proprietà dei San Diego Clippers era quella dei Boston Celtics, mentre il gruppo di imprenditori dei Buffalo Braves capitanato da John Y. Brown ereditò i Boston Celtics, reduci dall'era Russell e pronti ad entrare in quella di Larry Bird. Giudicate voi chi ha fatto l'affare...

 

IL CONTEST — Il nome “Clipper”, veliero, venne deciso nel classico contest che coinvolge i tifosi: deriva dalle navi a vela che nel 19° secolo venivano costruite nei cantieri inglesi, olandesi, francesi e americani e adibite al trasporto delle merci sulle rotte oceaniche. Progettate per raggiungere la massima velocità possibile a discapito della capacità di carico (fino ad un massimo di 37 km/h), devono l'etimologia proprio al verbo “to clip”, tagliare (i tempi di navigazione, o più semplicemente le onde). Sarebbe stato più adatto per una squadra di San Francisco, visto che nella Baia terminava la principale rotta che partiva da New York, ma calzava sicuramente più di Braves anche per San Diego, vista l'importante attività portuale della città.

 

IL TRASLOCO — Tre anni dopo il trasferimento per cui aveva sacrificato i Celtics, nel 1981, Levin non ce la faceva più. I risultati negativi e la morte della seconda moglie, Michelle, lo indussero a mollare. Se ne pentirà, ma intanto per 12.5 milioni di dollari vendette la franchigia a Donald Sterling, che dopo aver promesso in una lettera ai tifosi di San Diego che non avrebbe spostato la squadra, nel 1984 la portò a Los Angeles. L'NBA non approvò il trasloco e lo multò di 25 milioni di dollari, lui fece causa per 100 milioni ma la ritirò quando la lega abbassò a 6 il pegno da pagare. Non sarebbe stata l'ultimo problema tra Sterling e la lega, ma intanto la seconda squadra di L.A. era già realtà...

 

Michele Talamazzi - gds

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E se questa avventura attraverso i nomi delle franchigie NBA è iniziata con i Boston Celtics, non poteva che concludersi con i Los Angeles Lakers!

 

I "laghi" in California? No, in Minnesota! Ma nacquero come "gemme": i Los Angeles Lakers!

 

I laghi nascono a Detroit come gemme, si trasferiscono a Minneapolis e diventano una delle franchigie più famose della Nba sotto i riflettori di Hollywood

 

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Da Detroit a Minneapolis e poi Los Angeles. Questo il viaggio della franchigia Nba più famosa al mondo. Che i Lakers non siano originari di L.A. è un dubbio che sorge spontaneo: quali sarebbero i grandi laghi californiani ai quali il nome si rifà? L'ispirazione arriva da lontano, dai bacini del Minnesota (Ten Thousand Lakes, diecimila laghi, è il motto dello stato), che ha salvato dalla rovina la squadra che, 40 anni dopo con lo showtime, ha rivoluzionato il gioco del basket.

 

MO-TOWN — La franchigia che oggi brilla sotto i riflettori di Hollywood ha origine nella città dei motori. Nel 1946, grazie al progetto di Maury Winston, nascono i Detroit Gems, “gemme”, nome ispirato alla professione di gioielliere del fondatore della squadra. I Gems si iscrivono alla NBL (National Basketball League), campionato che allora contava “solo” 44 gare. Di queste la squadra ne vince solo 4. Winston, affranto, mette immediatamente in vendita la franchigia, occasione che Ben Berger e Morris Chalfen, due imprenditori del Minnesota, non si lasciano scappare. Si parte per Minneapolis.

 

NELLA TERRA DEI LAGHI — Il pessimo 4-40 permette ai Gems di avere la prima scelta al Draft del 1947, trasformata in George Mikan, destinato a dominare per anni i tabelloni di tutta America. I nuovi proprietari della franchigia sono però intenzionati a tagliare i ponti col deludente passato e trovare un nuovo nickname alla loro squadra. Per farlo basta guardarsi attorno. Il Minnesota è una distesa verde intervallata da un numero incredibile di laghi. Le gemme diventano così i Minneapolis Lakers. Il primo anno è già tempo di titolo. Ne vinceranno 6 (1 NBL e 5 NBA), ma dopo il ritiro di Mikan il Minnesota torna ad amare quasi esclusivamente l'hockey e i proprietari decidono di lasciare. A salvare i Lakers, questa volta, arriva l'imprenditore (e politico) Bob Short.

 

CALIFORNIA LOVE — Il nuovo proprietario dopo un'annata deludente guarda speranzoso verso l'estremo Ovest. È il 1960 e i Lakers vanno a tentare la sorte a Los Angeles. La scelta si rivela azzeccata. Le fortune iniziano ad arrivare nell'estate dello stesso anno, di nuovo grazie al Draft: con la seconda scelta i Los Angeles Lakers selezionano Jerry West, che li trascinerà in finale 9 volte e che da il via alla Dinasty. L'era West lascia il posto all'era Chamberlain per arrivare a quella dello Showtime di Magic Johnson e Kareem Abdul-Jabbar, le battaglie coi Celtics, le rivoluzioni nel gioco e nella Lega, fino ad arrivare a Kobe, Shaq e Gasol. 16 titoli, 31 finali NBA. Tutto made in Los Angeles.

 

LA PACE — E non poteva che essere hollywoodiana la riappacificazione finale tra Bryant e O'Neal, avvenuta durante l'ultima puntata del podcast di Shaq “The Big Podcast”. I due, che insieme hanno vinto 3 titoli 2000, 2001 e 2002, hanno chiarito questioni passate ma mai, realmente, sepolte. “Sei il più grande Laker di sempre”, ha detto Shaq a Kobe, parole che hanno chiuso il capitolo della rivalità ma che incendieranno un dibattito, già bollente: chi è il miglior Laker della storia?

 

Andrea Grazioli - gds

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Nickname che non c'entra nulla con il territorio, logo scialbo, 5 titoli in un'altra città e con diversi colori sociali.

 

Fakers. uhuh

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Dio benedica questo post ! @@ Questa è storia , la maggior parte delle storie non le conoscevo . Da fan dell NBA ringrazio l'ideatore .

 

Prego! Grazie a te :)

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Io dal lontano 1975....tifo Sixers. Attualmente siamo in trincea...ma ci rifaremo quanto prima. :d

 

Ti capisco :) . Io devo dire che non ho un "tifo" specifico, ma delle simpatie per alcune squadre che nel corso del tempo ho seguito maggiormente. Sono come Ambrosini insomma :d

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Ti capisco :) . Io devo dire che non ho un "tifo" specifico, ma delle simpatie per alcune squadre che nel corso del tempo ho seguito maggiormente. Sono come Ambrosini insomma :d

Vogliamo i nomi .pokerista

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Ti capisco :) . Io devo dire che non ho un "tifo" specifico, ma delle simpatie per alcune squadre che nel corso del tempo ho seguito maggiormente. Sono come Ambrosini insomma :d

 

Ti confesso che succede anche a me. Dipende poi dal periodo storico e da quale tipo di giocatori riescono ad imporsi. Per tipo intendo giocatori che siano un esempio dentro e fuori dal campo, e mi riferisco ai vari Jordan (Bulls), Duncan (Spurs) e adesso Curry (Warriors) quel prototipo di campione che la Juventus ha sempre messo davanti a tutto e a tutti. :sciarpata:

 

In questo momento a livello di squadra mi piace molto Minnesota, e mi scende una lacrima per i Pelicans (quest'anno sfortunatissimi).

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