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Mormegil

Guerra di Siria e situazione mediorientale: news e commenti

Post in rilievo

toccata e fuga giusto per portare alla vostra attenzione la crisi interna in iran, di cui parlavo mesi or sono.

la protesta è stata fomentata dagli ultraconservatori per motivi di ordine economico, che intendevano sovvertire l'attuale governo moderato. ma è rapidamente cambiata di segno, dal momento che si sono aggiunte componenti che mettono in discussione i fondamenti religiosi della società stessa e introducono nel dibattito politico nozioni "eretiche" come quelle di libertà INDIVIDUALI e di INDIVIDUO in sé, con una sfera privata separata da quella pubblica.

la protesta più eclatante è quella sul velo, che decine di donne hanno cominciato a svestire. la protesta si è organizzata attorno ad profili social come questo https://www.instagram.com/masih.alinejad/?hl=it

e l'immagine iconica è questa

https://pbs.twimg.com/media/DSju35UWAAAKnFw?format=jpg

una seconda protesta fondamentale è quella contro i rapporti con hezbollah, organizzazione di cui agli iraniani under30 frega meno di zero, che anzi guardano con una certa ostilità.

seguo con molto interesse questi moti, sapevo che il komehinismo non avrebbe retto. io sogno sempre un nuovo iran, pacifico, non costuruito su imitazione dell'occidente ma leader spirituale del medioriente.

 

Ed a questo proposito, visto che la ragazza che ha originato l'icona è stata arrestata dai ragheads sarebbe interessante sapere cosa ne pensano di questo abuso le varie (e silenti) organizzazioni femministe dell'universo mondo, immediatamente pronte ad azzannare il Weinstein di turno ma stranamente prone quando si parla di Islam (e di immigrati).

Forse erano un pelino distratte, come l'anno scorso, ai tempi degli stupri di massa di Colonia... .the .the

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Ed a questo proposito, visto che la ragazza che ha originato l'icona è stata arrestata dai ragheads sarebbe interessante sapere cosa ne pensano di questo abuso le varie (e silenti) organizzazioni femministe dell'universo mondo, immediatamente pronte ad azzannare il Weinstein di turno ma stranamente prone quando si parla di Islam (e di immigrati).

Forse erano un pelino distratte, come l'anno scorso, ai tempi degli stupri di massa di Colonia... .the .the

 

è la paura.... se te la prendi con Weinstein non succede niente, se te la prendi con questi qui rischi..... fisicamente intendo... se ci dai dentro facile che ti fanno fuori.. e qui, tutte le belle intenzioni ovviamente vanno a farsi benedire, meglio non rischiare... come dargli torto...

noi spariamo a zero spesso sul nostro occidente... ma poi ti guardi in giro...

è talmente un mondo chiuso e pericoloso quello extra europeo specie quello sotto regimi religiosi che fare inchieste serie è praticamente impossibile.

in Iran di quello che succede sappiamo praticamente zero, gli unici che sanno qualcosa sono i servizi segreti ed in Italia forse il ministro degli esteri.

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toccata e fuga giusto per portare alla vostra attenzione la crisi interna in iran, di cui parlavo mesi or sono.

la protesta è stata fomentata dagli ultraconservatori per motivi di ordine economico, che intendevano sovvertire l'attuale governo moderato. ma è rapidamente cambiata di segno, dal momento che si sono aggiunte componenti che mettono in discussione i fondamenti religiosi della società stessa e introducono nel dibattito politico nozioni "eretiche" come quelle di libertà INDIVIDUALI e di INDIVIDUO in sé, con una sfera privata separata da quella pubblica.

la protesta più eclatante è quella sul velo, che decine di donne hanno cominciato a svestire. la protesta si è organizzata attorno ad profili social come questo https://www.instagra...alinejad/?hl=it

e l'immagine iconica è questa

https://pbs.twimg.co...KnFw?format=jpg

una seconda protesta fondamentale è quella contro i rapporti con hezbollah, organizzazione di cui agli iraniani under30 frega meno di zero, che anzi guardano con una certa ostilità.

seguo con molto interesse questi moti, sapevo che il komehinismo non avrebbe retto. io sogno sempre un nuovo iran, pacifico, non costuruito su imitazione dell'occidente ma leader spirituale del medioriente.

 

magari oltre israele venisse fuori un'altro stato democratico in stile occidentale in quelle zone li...

IMO

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<h1>

Svelato altro investimento israeliano nella società di Kushner</h1>

<h4>

Lo ha fatto la società assicurativa Menora Mivtachim e consiste in 30 milioni di dollari</h4>

<div class="signature"><a href="mailto:[email protected]" target="_blank">Ats Ans/FC</a></div>

<p>WASHINGTON - Poco prima che Jared Kushner accompagnasse il suocero Donald Trump nella sua prima visita diplomatica in Israele lo scorso maggio, la società immobiliare gestita dalla sua famiglia ma di cui è ancora beneficiario ricevette un investimento di 30 milioni di dollari dalla società assicurativa Menora Mivtachim, una delle maggiori istituzioni finanziarie israeliane.</p>

<p>Lo riferisce il Nyt, ricordando che la transazione è l'ultima di una serie di accordi finanziari emersi tra il business di Kushner e partner israeliani, incluso uno con una delle famiglie più ricche del Paese e una grande banca israeliana soggetta a una inchiesta penale in Usa.</p>

<p>L'operazione, precisa il giornale, non sembra violare le leggi etiche federali ma dimostra come i rapporti finanziari tra la società di Kushner e Israele continuino a rafforzarsi nonostante il ruolo diplomatico dello stesso Kushner, incaricato dei negoziati di pace in Medio Oriente. Un accordo che potrebbe quindi minare ulteriormente la capacità degli Stati Uniti di essere visti come un mediatore indipendente nella regione, dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele.</p>

<p> </p>

<p>sono d'accordo con trump</p>

<p>non è stupido un genio sopratutto il genero</p>

 

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Analisi. È nel deficit di umanesimo la debolezza dei Paesi arabi

 

 

Michele Zanzucchi martedì 9 gennaio 2018

 

Petrolio, lavoro, tasse: riforme senza una base culturale: le monarchie del Golfo in cerca di nuovi assetti

 

7d5d553540_58680883.jpg?width=1024

 

 

Da qualche tempo il panorama mediorientale s’è arricchito, se ciò non suonasse beffardo, di un ulteriore elemento di instabilità. In effetti, le monarchie del Golfo persico sono sottoposte a uno stress sociale e politico prolungato che sta mettendo in crisi i loro sistemi di sviluppo, e quindi l’intera economia della regione, con le inevitabili ripercussioni politiche e talvolta anche militari. Può essere utile una rapida disamina dei singoli casi, a cominciare dal colosso dell’Arabia Saudita, che soffre d’un improvviso eccesso di febbre. Il dinamismo della stella ascendente di Mohammad bin Salman (soprannominato MbS), figlio del re attuale, primo vice-ministro, ministro della Difesa e principe ereditario ancora giovanissimo per le tradizioni saudite (ha solo 32 anni), pare contraddittorio: se da una parte accarezza i Paesi occidentali (ha il pieno sostegno di Donald Trump) con aperture quali la patente alle donne, l’apertura di cinema e una maggiore tolleranza religiosa, dall’altra apre, uno dopo l’altro, nuovi fronti di instabilità – Yemen, Qatar, Libano, Siria, Iran –, sapendo bene che i mercati, anche quelli del petrolio e del gas, detestano l’incertezza.

Schierati a fianco dell’Arabia Saudita, ecco Kuwait, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, che paiono assecondare le scelte del grande vicino. Paiono, perché ognuno di questi Stati ha in realtà i suoi problemi specifici e cerca di risolverli tirando sulla stessa coperta. Il Kuwait dell’emiro Sabah IV ha il problema degli stranieri che sono irrequieti e reclamano salari più alti; il Bahrein dell’emiro al-Khalifa deve fare i conti con la sua maggioranza sciita esclusa dal potere; e gli Emirati faticano a sostenere l’apertura ai mercati mondiali con solo il 12% di cittadini indigeni, mentre debbono stare attenti a non ingelosire i vicini, visto che il loro Pil è già più della metà di quello saudita (348 miliardi di dollari contro 646). L’Oman, da parte sua, resta defilato, privo o quasi di risorse petrolifere, e gode dell’ancora persistente simpatia del popolo per il sultano attuale Qaboos, che è riuscito a mantenere una relativa uguaglianza tra i cittadini, ma non ha eredi e invecchia rapidamente. Lo Yemen meriterebbe un capitolo a parte, primo perché non è una monarchia, secondo perché non ha ricchezze nel sottosuolo, terzo perché è in guerra per la secolare diatriba tra houthi e sunniti di cui recentemente ha fatto le spese l’ex-dittatore Saleh, campione di giravolte imbarazzanti pur di mantenere il potere.

Ancora più complesso è il caso qatariano guidato dall’emiro al-Thani: essendo il più dinamico come economia e soprattutto nella diversificazione degli investimenti, ha creato poco alla volta una frattura quasi insanabile coi suoi vicini. Le intese con l’Iran hanno ingenerato il sospetto di un trust tra i due Paesi, per la possibilità nemmeno tanto remota, dopo la sconfitta cocente dei sunniti in Siria, di far giungere il gas prodotto dai due Paesi direttamente nel Mediterraneo attraverso il cosiddetto 'corridoio sciita' tanto inviso ai sauditi, rendendolo molto più economico rispetto a quello delle altre monarchie del Golfo persico. Dopo cinquant’anni di denaro facile, tali monarchie conoscono anch’esse la crisi dovuta a un prezzo del petrolio non elevato come un tempo e destinato a diminuire ulteriormente. E ciò sia per la maggior offerta dovuta alla scoperta di immensi giacimenti (in Africa, in America Latina, persino tra Libano e Cipro) oggi sfruttabili con le nuove tecnologie di estrazione, sia per l’orientamento dell’industria automobilistica mondiale verso l’ibrido e l’elettrico. Senza dimenticare che i produttori di petrolio sono costretti a mantenere i prezzi più bassi di quanto sarebbe normale per evitare che il petrolio da scisto diventi concorrenziale. L’ultimo dato a disposizione sui fondamentali dell’economia della penisola arabica, nemmeno ipotizzabile anche solo qualche mese fa, parla di un’Arabia Saudita in recessione, con un arretramento di mezzo punto percentuale del Prodotto interno lordo nel 2017. È poco, ma è l’indicatore tanto temuto di un’inversione di tendenza. Non bastano più le diversificazioni negli investimenti dei fondi sovrani delle singole monarchie, operazione attuata da tutti i regnanti seppur in ritardo rispetto al Qatar, per sperare di godere anche in futuro della stessa opulenza sfacciata del recente passato.

Ma c’è di più. Delle società che vivevano sì sul petrolio e sul gas, ma anche sul lavoro sottopagato degli stranieri (26% in Arabia Saudita, 54 in Bahrein, 69 in Kuwait, 82 negli Emirati e addirittura 87 in Qatar) si trovano a dover allontanare i lavoratori stranieri – soprattutto provenienti dal subcontinente indiano e dalle Filippine –, perché cominciano a costare troppo e per giunta inviano all’estero la massima parte del loro reddito, senza consumare nulla o quasi nella penisola. Ma, cosa ancor più grave, i governi debbono 'costringere' i propri cittadini (udite, udite) a pagare le tasse che ora sono costretti a introdurre e addirittura a lavorare, verbo sconosciuto a gran parte di essi, alle donne ma anche agli uomini: Muhammad bin Salman, ad esempio, ha dichiarato che tra vent’anni non ci dovranno più essere lavoratori stranieri in Arabia Saudita. Proprio in Arabia ed Emirati è appena stata introdotta una tassa del 5% simile alla nostra Iva. Ciò sta ovviamente caricando di problemi le popolazioni autoctone, evidenziando non solo i nodi economici e finanziari, ma anche il deficit culturale, soprattutto in ambito umanistico. Si trovano attualmente informatici sauditi, ingegneri qatariani e medici del Kuwait che studiano o hanno studiato all’estero, ma è estremamente difficile assumere insegnanti di lettere locali, storici, psicologi, in altre parole 'umanisti'. Esistono pochissimi istituti universitari per la trasmissione della cultura beduina, solo recentemente valorizzata in taluni Paesi, soprattutto a fini turistici. Il trionfo della tecnologia ha creato enormi città 'fake & glamour', ma senza una vera identità. La stessa religione islamica s’è ancorata alla tradizione wahhabita, ma senza quegli strumenti di ermeneutica dei libri sacri che appaiono più che necessari per avviare le riforme necessarie, in tutti i campi.

Ecco quindi la difficoltà a capire la crisi presente e quindi a modificare i comportamenti delle popolazioni indigene e di cambiare le sue prospettive. La vera riforma vincente per le monarchie del Golfo persico starebbe proprio nella rinascita di un umanesimo arabo – se si vuole anche importato dall’Egitto o dal Libano – che valorizzi quel che resta delle culture locali. I quattro maggiori problemi dello sviluppo delle monarchie del Golfo persico non sono tanto economici, quanto umanistici: la conflittualità tra sciiti e sunniti (un problema eminentemente religiosoumanistico, oltre che politico); la concezione feudale non solo del lavoro manuale ma di ogni impegno che richieda fatica (anche ciò avrebbe bisogno di un sostrato filosofico non secondario); la questione religiosa di come passare dal wahhabismo a una visione tollDa qualche tempo il panorama mediorientale s’è arricchito, se ciò non suonasse beffardo, di un ulteriore elemento di instabilità. In effetti, le monarchie del Golfo persico sono sottoposte a uno stress sociale e politico prolungato che sta mettendo in crisi i loro sistemi di sviluppo, e quindi l’intera economia della regione, con le inevitabili ripercussioni politiche e talvolta anche militari. Può essere utile una rapida disamina dei singoli casi, a cominciare dal colosso dell’Arabia Saudita, che soffre d’un improvviso eccesso di febbre. Il dinamismo della stella ascendente di Mohammad bin Salman (soprannominato MbS), figlio del re attuale, primo vice-ministro, ministro della Difesa e principe ereditario ancora giovanissimo per le tradizioni saudite (ha solo 32 anni), pare contraddittorio: se da una parte accarezza i Paesi occidentali (ha il pieno sostegno di Donald Trump) con aperture quali la patente alle donne, l’apertura di cinema e una maggiore tolleranza religiosa, dall’altra apre, uno dopo l’altro, nuovi fronti di instabilità – Yemen, Qatar, Libano, Siria, Iran –, sapendo bene che i mercati, anche quelli del petrolio e del gas, detestano l’incertezza.

Schierati a fianco dell’Arabia Saudita, ecco Kuwait, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, che paiono assecondare le scelte del grande vicino. Paiono, perché ognuno di questi Stati ha in realtà i suoi problemi specifici e cerca di risolverli tirando sulla stessa coperta. Il Kuwait dell’emiro Sabah IV ha il problema degli stranieri che sono irrequieti e reclamano salari più alti; il Bahrein dell’emiro al-Khalifa deve fare i conti con la sua maggioranza sciita esclusa dal potere; e gli Emirati faticano a sostenere l’apertura ai mercati mondiali con solo il 12% di cittadini indigeni, mentre debbono stare attenti a non ingelosire i vicini, visto che il loro Pil è già più della metà di quello saudita (348 miliardi di dollari contro 646). L’Oman, da parte sua, resta defilato, privo o quasi di risorse petrolifere, e gode dell’ancora persistente simpatia del popolo per il sultano attuale Qaboos, che è riuscito a mantenere una relativa uguaglianza tra i cittadini, ma non ha eredi e invecchia rapidamente. Lo Yemen meriterebbe un capitolo a parte, primo perché non è una monarchia, secondo perché non ha ricchezze nel sottosuolo, terzo perché è in guerra per la secolare diatriba tra houthi e sunniti di cui recentemente ha fatto le spese l’ex-dittatore Saleh, campione di giravolte imbarazzanti pur di mantenere il potere.

Ancora più complesso è il caso qatariano guidato dall’emiro al-Thani: essendo il più dinamico come economia e soprattutto nella diversificazione degli investimenti, ha creato poco alla volta una frattura quasi insanabile coi suoi vicini. Le intese con l’Iran hanno ingenerato il sospetto di un trust tra i due Paesi, per la possibilità nemmeno tanto remota, dopo la sconfitta cocente dei sunniti in Siria, di far giungere il gas prodotto dai due Paesi direttamente nel Mediterraneo attraverso il cosiddetto 'corridoio sciita' tanto inviso ai sauditi, rendendolo molto più economico rispetto a quello delle altre monarchie del Golfo persico. Dopo cinquant’anni di denaro facile, tali monarchie conoscono anch’esse la crisi dovuta a un prezzo del petrolio non elevato come un tempo e destinato a diminuire ulteriormente. E ciò sia per la maggior offerta dovuta alla scoperta di immensi giacimenti (in Africa, in America Latina, persino tra Libano e Cipro) oggi sfruttabili con le nuove tecnologie di estrazione, sia per l’orientamento dell’industria automobilistica mondiale verso l’ibrido e l’elettrico. Senza dimenticare che i produttori di petrolio sono costretti a mantenere i prezzi più bassi di quanto sarebbe normale per evitare che il petrolio da scisto diventi concorrenziale. L’ultimo dato a disposizione sui fondamentali dell’economia della penisola arabica, nemmeno ipotizzabile anche solo qualche mese fa, parla di un’Arabia Saudita in recessione, con un arretramento di mezzo punto percentuale del Prodotto interno lordo nel 2017. È poco, ma è l’indicatore tanto temuto di un’inversione di tendenza. Non bastano più le diversificazioni negli investimenti dei fondi sovrani delle singole monarchie, operazione attuata da tutti i regnanti seppur in ritardo rispetto al Qatar, per sperare di godere anche in futuro della stessa opulenza sfacciata del recente passato.

Ma c’è di più. Delle società che vivevano sì sul petrolio e sul gas, ma anche sul lavoro sottopagato degli stranieri (26% in Arabia Saudita, 54 in Bahrein, 69 in Kuwait, 82 negli Emirati e addirittura 87 in Qatar) si trovano a dover allontanare i lavoratori stranieri – soprattutto provenienti dal subcontinente indiano e dalle Filippine –, perché cominciano a costare troppo e per giunta inviano all’estero la massima parte del loro reddito, senza consumare nulla o quasi nella penisola. Ma, cosa ancor più grave, i governi debbono 'costringere' i propri cittadini (udite, udite) a pagare le tasse che ora sono costretti a introdurre e addirittura a lavorare, verbo sconosciuto a gran parte di essi, alle donne ma anche agli uomini: Muhammad bin Salman, ad esempio, ha dichiarato che tra vent’anni non ci dovranno più essere lavoratori stranieri in Arabia Saudita. Proprio in Arabia ed Emirati è appena stata introdotta una tassa del 5% simile alla nostra Iva. Ciò sta ovviamente caricando di problemi le popolazioni autoctone, evidenziando non solo i nodi economici e finanziari, ma anche il deficit culturale, soprattutto in ambito umanistico. Si trovano attualmente informatici sauditi, ingegneri qatariani e medici del Kuwait che studiano o hanno studiato all’estero, ma è estremamente difficile assumere insegnanti di lettere locali, storici, psicologi, in altre parole 'umanisti'. Esistono pochissimi istituti universitari per la trasmissione della cultura beduina, solo recentemente valorizzata in taluni Paesi, soprattutto a fini turistici. Il trionfo della tecnologia ha creato enormi città 'fake & glamour', ma senza una vera identità. La stessa religione islamica s’è ancorata alla tradizione wahhabita, ma senza quegli strumenti di ermeneutica dei libri sacri che appaiono più che necessari per avviare le riforme necessarie, in tutti i campi.

Ecco quindi la difficoltà a capire la crisi presente e quindi a modificare i comportamenti delle popolazioni indigene e di cambiare le sue prospettive. La vera riforma vincente per le monarchie del Golfo persico starebbe proprio nella rinascita di un umanesimo arabo – se si vuole anche importato dall’Egitto o dal Libano – che valorizzi quel che resta delle culture locali. I quattro maggiori problemi dello sviluppo delle monarchie del Golfo persico non sono tanto economici, quanto umanistici: la conflittualità tra sciiti e sunniti (un problema eminentemente religiosoumanistico, oltre che politico); la concezione feudale non solo del lavoro manuale ma di ogni impegno che richieda fatica (anche ciò avrebbe bisogno di un sostrato filosofico non secondario); la questione religiosa di come passare dal wahhabismo a una visione tollerante della fede (tema da teologi, psicologi e sociologi); e la necessità di una nuova 'umiltà diplomatica' (che nasce dallo studio della storia). La prima riforma da fare sulla costa occidentale del Golfo persico dovrebbe riguardare proprio gli studi umanistici.reerante della fede (tema da teologi, psicologi e sociologi); e la necessità di una nuova 'umiltà diplomatica' (che nasce dallo studio della storia). La prima riforma da fare sulla costa occidentale del Golfo persico dovrebbe riguardare proprio gli studi umanistici.

 

Avvenire

 

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.giornale ..... .quoto

Di solito non leggo gli articoli molto lunghi ( logorroici ) perchè mi avviliscono .

Questo , però , è piacevolmente scorrevole ( breve il giusto , conciso e compendioso ) .

Spiega benissimo i problemi delle varie " monarchie del Golfo " ( in molti dei quali , in verità , io già mi ero informato in Google ...per dire ) , ma una cosa è sapere ed una cosa è spiegarLa bene come ha scritto Zanzucchi ..... .ok

 

.... ecc. , ecc....

...... ecc. , ecc.........

 

Ecco quindi la difficoltà a capire la crisi presente e quindi a modificare i comportamenti delle popolazioni indigene e di cambiare le sue prospettive. La vera riforma vincente per le monarchie del Golfo persico starebbe proprio nella rinascita di un umanesimo arabo – se si vuole anche importato dall’Egitto o dal Libano – che valorizzi quel che resta delle culture locali.

I quattro maggiori problemi dello sviluppo delle monarchie del Golfo persico non sono tanto economici, quanto umanistici: la conflittualità tra sciiti e sunniti (un problema eminentemente religiosoumanistico, oltre che politico); la concezione feudale non solo del lavoro manuale ma di ogni impegno che richieda fatica (anche ciò avrebbe bisogno di un sostrato filosofico non secondario);

la questione religiosa di come passare dal wahhabismo a una visione tollerante della fede (tema da teologi, psicologi e sociologi);

e la necessità di una nuova 'umiltà diplomatica' (che nasce dallo studio della storia).

La prima riforma da fare sulla costa occidentale del Golfo persico dovrebbe riguardare proprio gli studi umanistici.

 

A parte , la prima parte ( è impeccabile ) .

L'ultima ( quella che ho citato ) , in pratica , parla dello stesso argomento che io vado dicendo da ... anni !! certo : Lui lo scrive in una maniera più corretta ed efficace ( è il Suo mestiere ... ) .

Bene ,

Adesso siamo in 3 ( o in 4 ) ... a dire sostanzialmente le stesse "cose " ( più o meno ) : .qualamano

.... io : photo-thumb-16104.jpg... Kalid Chaouki : . Khalid_Chaouki_daticamera.jpg.

... M.Zanzucchi : zanzucchi-1-230x160-c-default.jpg.... e l'amico che lo ha postato : "juventino"

 

 

:)

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Mah non lo so. Non vedo così vicina quella specie di apocalisse finanziaria saudita che l'articolo delinea (e quasi quasi auspica).

 

Il prezzo del petrolio non è destinato a scendere ma semmai a salire. Era sceso fino a 30 dollari circa, più o meno due anni fa e adesso siamo di nuovo sui 60. In novembre 2017 c'è stato un accordo OPEC allargato alla Russia per non aumentare le quote di estrazione e di conseguenza fare salire i prezzi attuali, possibilmente portandoli almeno fino ad 80$. Le economie occidentali hanno retto prezzi anche fino a 120$ e oltre, quindi i margini sono ampi sia per noi che per loro.

 

L'affermazione che gli arabi vogliano mantenere i prezzi bassi per impedire la convenienza al petrolio di shale è una fesseria, perché oramai fa parte del passato.

I sauditi ci hanno già provato due anni fa, abbassando i prezzi fino a 30$, ed anche se con questo sistema sono riusciti a fare fuori un po' di produttori USA (i più piccoli e meno strutturati che avevano approfittato della bolla buttandosi nel businness), quelli che sono darwinianamente sopravvissuti hanno razionalizzato la produzione, adeguato la tecnologia di fracking e tagliato i costi superflui anche del 40% e sono usciti dall'occhio del ciclone, diventando più forti e meno sensibili all'altalena dei prezzi.

In compenso per il paesi OPEC e per la Russia i prezzi bassi sono stati un bagno di sangue insostenibile (la Russia paga una tecnologia obsoleta e costosissima e non può permettersi prezzi bassi), che non vorranno ripetere né ora né mai, e saranno quindi costretti a rinunciare definitivamente al mercato USA,rassegnandosi a coesistere con i produttori americani di shale, per i quali i prezzi attuali a 60$, sono come se piovesse oro.

Paradossalmente, il risultato della corsa al ribasso è stato che gli USA sono diventati autosufficienti dal punto di vista energetico e lo saranno ancora di più (in prospettiva) quando andranno a regime le trivellazioni ENI in Alaska, recentemente autorizzate da Trump.

Per non parlare del fatto che ogni dollaro in più sul prezzo al barile rende convenienti sempre nuovi giacimenti di shale. In pratica, anche se non sono del tutto fuori dai casini i produttori USA sono adesso al riparo da tempeste prevedibili, potendo sostenere prezzi anche di 30/40$, ai quali nessuno, né OPEC né Russia ha intenzione di tornare.

Ovviamente, i produttori USA non fanno parte dell'Opec e quindi regolano la loro produzione in base alle loro convenienze, sbattendosene delle quote e basandosi sulle necessità interne americane. Cosa che offre un enorme vantaggio strategico globale, non dovendo dipendere da nessuno per le proprie necessità energetiche.

 

Un'altra fesseria è il fatto che i prezzi debbano scendere perché l'era del petrolio sta finendo. Infatti, è da 14 trimestri che la richiesta mondiale di greggio cresce ininterrottamente, essendo passata dai 92 milioni di barili/giorno (mbg) del 1° trimestre 2014 ai 98mbg del 2° trimestre 2017, mentre l'offerta essendo stata contingentata è scesa sui 97mbg (da qui i prezzi in aumento). E non vi è ragione per ritenere che il trend possa cambiare a breve, a meno di sconvolgimenti politici clamorosi.

Ed ovviamente l'aumento della richiesta non deriva dai consumi automobilistici stagnanti, ma dalle industrie plastiche e affini. Con buona pace delle auto elettriche che non incidono che in minima parte sulla riduzione delle estrazioni.

 

Per quanto, riguarda gli scompensi sociali in AS e l'arretramento del PIL, ritengo che Ryadh stia pagando gli anni dei prezzi a 30-40-50$, durante i quali aveva letteralmente inondato il mondo di petrolio in surplus (fino a 4mbg), provocando il crollo delle quotazioni ed il salasso delle proprie casse. Adesso il massacro è finito e devono cominciare a riassestare i propri conti, contando su quotazioni in (lenta)risalita. Anche perché con i prezzi caldi al barile ne guadagna anche la quotazione pubblica di Aramco oramai in rampa di lancio.

 

In definitiva, non vedo una apocalisse finanziaria sul cielo di Ryadh, ma solo una certa turbolenza dovuta alle scelte degli anni scorsi che vengono pagate solo adesso.

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Mah non lo so. Non vedo così vicina quella specie di apocalisse finanziaria saudita che l'articolo delinea (e quasi quasi auspica).

 

Il prezzo del petrolio non è destinato a scendere ma semmai a salire. Era sceso fino a 30 dollari circa, più o meno due anni fa e adesso siamo di nuovo sui 60. In novembre 2017 c'è stato un accordo OPEC allargato alla Russia per non aumentare le quote di estrazione e di conseguenza fare salire i prezzi attuali, possibilmente portandoli almeno fino ad 80$. Le economie occidentali hanno retto prezzi anche fino a 120$ e oltre, quindi i margini sono ampi sia per noi che per loro.

 

L'affermazione che gli arabi vogliano mantenere i prezzi bassi per impedire la convenienza al petrolio di shale è una fesseria, perché oramai fa parte del passato.

I sauditi ci hanno già provato due anni fa, abbassando i prezzi fino a 30$, ed anche se con questo sistema sono riusciti a fare fuori un po' di produttori USA (i più piccoli e meno strutturati che avevano approfittato della bolla buttandosi nel businness), quelli che sono darwinianamente sopravvissuti hanno razionalizzato la produzione, adeguato la tecnologia di fracking e tagliato i costi superflui anche del 40% e sono usciti dall'occhio del ciclone, diventando più forti e meno sensibili all'altalena dei prezzi.

In compenso per il paesi OPEC e per la Russia i prezzi bassi sono stati un bagno di sangue insostenibile (la Russia paga una tecnologia obsoleta e costosissima e non può permettersi prezzi bassi), che non vorranno ripetere né ora né mai, e saranno quindi costretti a rinunciare definitivamente al mercato USA,rassegnandosi a coesistere con i produttori americani di shale, per i quali i prezzi attuali a 60$, sono come se piovesse oro.

Paradossalmente, il risultato della corsa al ribasso è stato che gli USA sono diventati autosufficienti dal punto di vista energetico e lo saranno ancora di più (in prospettiva) quando andranno a regime le trivellazioni ENI in Alaska, recentemente autorizzate da Trump.

Per non parlare del fatto che ogni dollaro in più sul prezzo al barile rende convenienti sempre nuovi giacimenti di shale. In pratica, anche se non sono del tutto fuori dai casini i produttori USA sono adesso al riparo da tempeste prevedibili, potendo sostenere prezzi anche di 30/40$, ai quali nessuno, né OPEC né Russia ha intenzione di tornare.

Ovviamente, i produttori USA non fanno parte dell'Opec e quindi regolano la loro produzione in base alle loro convenienze, sbattendosene delle quote e basandosi sulle necessità interne americane. Cosa che offre un enorme vantaggio strategico globale, non dovendo dipendere da nessuno per le proprie necessità energetiche.

 

Un'altra fesseria è il fatto che i prezzi debbano scendere perché l'era del petrolio sta finendo. Infatti, è da 14 trimestri che la richiesta mondiale di greggio cresce ininterrottamente, essendo passata dai 92 milioni di barili/giorno (mbg) del 1° trimestre 2014 ai 98mbg del 2° trimestre 2017, mentre l'offerta essendo stata contingentata è scesa sui 97mbg (da qui i prezzi in aumento). E non vi è ragione per ritenere che il trend possa cambiare a breve, a meno di sconvolgimenti politici clamorosi.

Ed ovviamente l'aumento della richiesta non deriva dai consumi automobilistici stagnanti, ma dalle industrie plastiche e affini. Con buona pace delle auto elettriche che non incidono che in minima parte sulla riduzione delle estrazioni.

 

Per quanto, riguarda gli scompensi sociali in AS e l'arretramento del PIL, ritengo che Ryadh stia pagando gli anni dei prezzi a 30-40-50$, durante i quali aveva letteralmente inondato il mondo di petrolio in surplus (fino a 4mbg), provocando il crollo delle quotazioni ed il salasso delle proprie casse. Adesso il massacro è finito e devono cominciare a riassestare i propri conti, contando su quotazioni in (lenta)risalita. Anche perché con i prezzi caldi al barile ne guadagna anche la quotazione pubblica di Aramco oramai in rampa di lancio.

 

In definitiva, non vedo una apocalisse finanziaria sul cielo di Ryadh, ma solo una certa turbolenza dovuta alle scelte degli anni scorsi che vengono pagate solo adesso.

 

Concordo, l'articolo è a dir poco approssimativo, fa molta confusione tra le varie realtà del golfo e cade nel ridicolo quando parla degli studi umanistici trascurati (qualcuno gli dica che hanno appena inaugurato una sede del Louvre ad Abu Dhabi).

La "crisi" saudita si riassume in un tweet di un saudita "arrabbiato" che è circolata ultimamente, la foto del pieno alla pompa costato la bellezza di 320 riyal (70 €) commentato con un laconico "come possiamo campare così?". Peccato che oltre al costo ci fossero anche i litri, 156 litri. Ora, se uso una macchina nella quale entrano ben 156 litri nel serbatoio (praticamente si arriva a certi livelli solo in certi mega pickup americani V8 da 6 mila di cilindrata) di quale crisi stiamo parlando? Il governo ha fatto benissimo secondo me, è bene imporre misure (come l'aumento della benzina) che obblighino la società saudita a cambiare stile di vita, perché oggettivamente è una società dove lo spreco (anche alimentare) è la regola, praticamente sono una brutta copia degli USA. E finché navigavi nell'oro (nero) era un discorso, ora è giusto correggere il tiro.

Tra l'altro dopo la mazzata degli aumenti su carburante, luce e acqua, più introduzione dell'IVA, l'ondata di "proteste" (più social che altro a dire il vero) ha avuto i suoi effetti, con il Re che ha deciso aumenti di 1000 riyal mensili (220 €) per tutti gli impiegati e i pensionati del settore pubblico! Uno Stato veramente in recessione come dice l'articolo non potrebbe mai permettersi una misura del genere (dal costo di 13 miliardi di dollari l'anno), per dire.

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il vero problema ma che potrebbe essere anche la vera risorsa dell'arabia saudita

è il boom demografico

in arabia saudita la popolazione è triplicata in 30 anni decuplitaco in 60anni e continua a crescere a ritmi alti le risorse economiche sono rimaste uguali

il PPA si è dimezzato mai successo in un paese in tempo di pace

bsm sa che diversificare è l'unica strada assistenzialismo non è più possibile

suo padre ha paura delle proteste

bsm a cominciato dalla sua vasta famiglia che conta 10.000 principi viziati spendaccioni

13 miliardi sono il 2% del pil non poco

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Concordo, l'articolo è a dir poco approssimativo, fa molta confusione tra le varie realtà del golfo e cade nel ridicolo quando parla degli studi umanistici trascurati (qualcuno gli dica che hanno appena inaugurato una sede del Louvre ad Abu Dhabi).

La "crisi" saudita si riassume in un tweet di un saudita "arrabbiato" che è circolata ultimamente, la foto del pieno alla pompa costato la bellezza di 320 riyal (70 €) commentato con un laconico "come possiamo campare così?". Peccato che oltre al costo ci fossero anche i litri, 156 litri. Ora, se uso una macchina nella quale entrano ben 156 litri nel serbatoio (praticamente si arriva a certi livelli solo in certi mega pickup americani V8 da 6 mila di cilindrata) di quale crisi stiamo parlando? Il governo ha fatto benissimo secondo me, è bene imporre misure (come l'aumento della benzina) che obblighino la società saudita a cambiare stile di vita, perché oggettivamente è una società dove lo spreco (anche alimentare) è la regola, praticamente sono una brutta copia degli USA. E finché navigavi nell'oro (nero) era un discorso, ora è giusto correggere il tiro.

Tra l'altro dopo la mazzata degli aumenti su carburante, luce e acqua, più introduzione dell'IVA, l'ondata di "proteste" (più social che altro a dire il vero) ha avuto i suoi effetti, con il Re che ha deciso aumenti di 1000 riyal mensili (220 €) per tutti gli impiegati e i pensionati del settore pubblico! Uno Stato veramente in recessione come dice l'articolo non potrebbe mai permettersi una misura del genere (dal costo di 13 miliardi di dollari l'anno), per dire.

 

.ghgh .ghgh

 

Il serbatoio di un Hummer porta neanche 90 l., che è tutto dire...

Mettiamola così: personalmente sarei già felice di avere dieci volte tanti i problemi che ha quel tizio per campare... a partire dal prezzo della benzina, 0,45€/litro .uah .uah

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.ghgh .ghgh

 

Il serbatoio di un Hummer porta neanche 90 l., che è tutto dire...

Mettiamola così: personalmente sarei già felice di avere dieci volte tanti i problemi che ha quel tizio per campare... a partire dal prezzo della benzina, 0,45€/litro .uah .uah

 

Vabbè dai, va capito poverino, fino al giorno prima era a 20 centesimi al litro! :patpat:

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il vero problema ma che potrebbe essere anche la vera risorsa dell'arabia saudita

è il boom demografico

in arabia saudita la popolazione è triplicata in 30 anni decuplitaco in 60anni e continua a crescere a ritmi alti le risorse economiche sono rimaste uguali

il PPA si è dimezzato mai successo in un paese in tempo di pace

bsm sa che diversificare è l'unica strada assistenzialismo non è più possibile

suo padre ha paura delle proteste

bsm a cominciato dalla sua vasta famiglia che conta 10.000 principi viziati spendaccioni

13 miliardi sono il 2% del pil non poco

 

se i dati che hai citato sono veri, secondo me hai centrato il discorso.

impossibile procedere con l'assistenzialismo se l'aumento demografico è di quell'ordine li.

per forza di cose devi cominciare a tassare e rivedere il sistema economico e mettere su un sistema sociale dove la collettività deve contribuire per i servizi.

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Il 9/1/2018 Alle 19:31, Vonpalace ha scritto:

il vero problema ma che potrebbe essere anche la vera risorsa dell'arabia saudita

è il boom demografico

in arabia saudita la popolazione è triplicata in 30 anni decuplitaco in 60anni e continua a crescere a ritmi alti le risorse economiche sono rimaste uguali

il PPA si è dimezzato mai successo in un paese in tempo di pace

bsm sa che diversificare è l'unica strada assistenzialismo non è più possibile

suo padre ha paura delle proteste

bsm a cominciato dalla sua vasta famiglia che conta 10.000 principi viziati spendaccioni

13 miliardi sono il 2% del pil non poco

 

Il 10/1/2018 Alle 11:47, bonve ha scritto:

 

se i dati che hai citato sono veri, secondo me hai centrato il discorso.

impossibile procedere con l'assistenzialismo se l'aumento demografico è di quell'ordine li.

per forza di cose devi cominciare a tassare e rivedere il sistema economico e mettere su un sistema sociale dove la collettività deve contribuire per i servizi.

Si è vero, l'aumento demografico è stato molto sostenuto, ora sta rallentando ma è comunque importante. C'è da dire che una parte rilevante dell'aumento è stata dovuta all'immigrazione (ci sono 11 milioni di immigrati su 33 milioni di abitanti, ovvero un terzo della popolazione). E non a caso il "razzismo" contro gli immigrati "che ci rubano il lavoro" è cresciuto esponenzialmente in questi anni di "crisi". E Bin Salman è uno dei grandi sostenitori della "saudizzazione" del mondo del lavoro, ovvero dare la precedenza ai sauditi. Il punto è che, oltre ad apparire razzista, è anche insostenibile, perché i sauditi non accetterebbero mai certi lavori e con certe paghe ridicole. Possono applicarlo in qualche ambito ma di certo non in tutto. Ora per dire stanno aumentando di brutto i costi del permesso di soggiorno, che da qui al 2020 triplicheranno, di fatto una famiglia straniera di 5 persone si troverà a versare una cosa come 1000 € l'anno per il permesso di soggiorno. Ed è proprio nel colpire le famiglie che si capisce quali immigrati vogliono togliersi di mezzo, non il filippino e il bengalese che per 400 € al mese lavorano 60 ore a settimana, ma i tantissimi impiegati, professionisti, ecc, che tolgono il lavoro a sempre più giovani sauditi con una laurea in tasca che non trovano un lavoro decente. Per esempio su 200 mila ingegneri in Arabia solo il 20% sono sauditi, qualcuno potrebbe dire "ok, si vede che non ne hanno abbastanza", ma il punto è proprio questo, che ormai la disoccupazione dei giovani sauditi laureati in Ingegneria sta diventando un vero problema. E questi ingegneri sono a dir poco furiosi perché le aziende saudite continuano ad assumere direttamente ingegneri dall'estero (egiziani, giordani, libanesi, indiani, pakistani, ecc) ignorandoli completamente. 

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Il 1/9/2018 Alle 15:46, sol invictus ha scritto:

 

 

Ovviamente, i produttori USA non fanno parte dell'Opec e quindi regolano la loro produzione in base alle loro convenienze, sbattendosene delle quote e basandosi sulle necessità interne americane. Cosa che offre un enorme vantaggio strategico globale, non dovendo dipendere da nessuno per le proprie necessità energetiche.

 

 

Ecco perchè gli accordi presi all'OPEC durano qualche settimana, dopodichè ognuno per se' e Allah per tutti.

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Il principe Alwaleed bin Talal, l'uomo più ricco d'Arabia Saudita, è stato trasferito in carcere. Era detenuto da novembre presso l'hotel Ritz-Carlton dopo l'arresto nell'ambito dell'operazione anti-corruzione voluta dall'erede al trono Mohammed bin Salman. Lo riportano il Daily Mail e la Cnbc riprendendo un articolo pubblicato su un sito di notizie in lingua araba. Secondo i media, il principe si rifiuta di pagare a Riad un miliardo di dollari.

 

primasiparlava di 6miliardi

c'èda capire se questa èuna prova di forza o debolezza

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Il 13/1/2018 Alle 20:40, Vonpalace ha scritto:

Il principe Alwaleed bin Talal, l'uomo più ricco d'Arabia Saudita, è stato trasferito in carcere. Era detenuto da novembre presso l'hotel Ritz-Carlton dopo l'arresto nell'ambito dell'operazione anti-corruzione voluta dall'erede al trono Mohammed bin Salman. Lo riportano il Daily Mail e la Cnbc riprendendo un articolo pubblicato su un sito di notizie in lingua araba. Secondo i media, il principe si rifiuta di pagare a Riad un miliardo di dollari.

 

primasiparlava di 6miliardi

c'èda capire se questa èuna prova di forza o debolezza

Membro della famiglia reale saudita, Waleed è il nipote del defunto re saudita Abdullah, nipote di Ibn Saud il primo re saudita e nipote di Riad Al Solh primo ministro del Libano.

beh direi che più di operazione anti-corruzione trattasi di regolamento di conti in seno alla famiglia... del tipo fatti da parte e non rompere tanto le scatole..

 

questo è un'articolo interessante 

http://www.ilpost.it/2017/11/06/arabia-saudita-mbs/

 

In Arabia Saudita è successa una cosa grossa, vediamo di capirla

Nel giro di due giorni ci sono stati decine di principi e politici arrestati, misteriosi incidenti in elicottero, dimissioni e lanci di missili

Fra sabato e domenica sono arrivate diverse notizie inusuali dall’Arabia Saudita, una ricchissima e potente monarchia assoluta in cui il potere è concentrato nelle mani della famiglia reale e del clero islamico wahabita, che pratica un Islam molto conservatore. Qualcuno ha paragonato i fatti dei giorni scorsi all’episodio delle “nozze rosse” della popolare serie tv fantasy Game of Thrones, in cui una delle famiglie più importanti viene eliminata con un rapidissimo agguato, scombinando la lotta politica e militare per il dominio del regno. I principali osservatori internazionali, in effetti, hanno interpretato i fatti di questi giorni come un regolamento di conti che potrebbe avere conseguenze significative in tutto il Medio Oriente.
Sabato sera undici principi, quattro ministri e “decine” di ex ministri sono stati arrestati da una “commissione anti-corruzione” nata appena poche ore prima. In mattinata si era dimesso il primo ministro del Libano, appoggiato da tempo dall’Arabia Saudita. Domenica il figlio dell’ex principe ereditario è morto insieme ad altri funzionari di stato in un misterioso incidente in elicottero, di cui al momento si sa molto poco. La persona attorno a cui ruotano tutte queste notizie è Mohammed bin Salman, figlio del re, ministro della Difesa e principe ereditario dalle idee innovative e radicali.
Bin Salman (o MbS, come viene chiamato spesso dai giornali) ha 32 anni e si era guadagnato una certa visibilità già l’anno scorso. Fu lui a studiare e presentare il documento “Vision 2030”, un imponente progetto per ridurre progressivamente la dipendenza dell’economia saudita dall’estrazione del petrolio, di cui detiene circa un quinto delle riserve mondiali. Il Financial Times lo definì «il più importante piano di riforme della storia dell’Arabia Saudita». Il re Salman, che ha 81 anni, è sempre meno coinvolto nelle decisioni della monarchia; MbS è considerato da molti già ora il leader di fatto del paese.
Negli ultimi mesi l’applicazione del piano, che prevede anche una maggiore apertura del paese, aveva subìto un’accelerata: per esempio si sono tenuti alcuni eventi prima proibiti, come concerti e proiezioni di film, ed è stata annunciata l’abolizione del divieto delle donne di guidare e ad assistere a eventi sportivi dal vivo. Dieci giorni fa, partecipando a un importante summit economico, MbS ha annunciato l’intenzione di reintrodurre «un Islam tollerante e moderato, che sia aperto al mondo e a tutte le religioni».
Gli arresti di sabato sono considerati da molti una “purga” compiuta da MbS nei confronti di oppositori e possibili avversari per il trono, il passaggio finale per assicurarsi sia l’applicazione di “Vision 2030” sia l’ascesa al trono: niente insomma che abbia davvero a che fare con la corruzione. Chas W. Freeman, ambasciatore statunitense in Arabia Saudita fra il 1990 e il 1992, l’ha definito «un colpo di grazia al vecchio sistema». Ma gli arresti di sabato vanno inseriti in una cornice più ampia, che coinvolge altri paesi dell’area.
Due giorni fa il primo ministro del Libano Saad Hariri ha annunciato le sue dimissioni. Ha motivato la sua decisione dicendo che teme di essere assassinato e ha criticato l’Iran, storico rivale dell’Arabia Saudita e sostenitore del movimento estremista sciita Hezbollah, per le sue intromissioni nella vita politica del Libano (uno dei pochi paesi arabi a maggioranza sciita). Oltre a essere primo ministro, Hariri è il capo del movimento politico sunnita “Il Futuro” ed era apertamente sostenuto dall’Arabia Saudita. In molti hanno notato che Hariri si è dimesso durante una visita di stato in Arabia Saudita, nel corso di un’intervista alla televisione saudita al Jadeed.
L’Arabia Saudita sta cercando da tempo di diventare il paese leader del polo sunnita del mondo arabo. Da quando ci sono in giro MbS e “Vision 2030”, questa posizione si è ulteriormente rafforzata. L’appoggio ad Hariri andava proprio in questa direzione e aveva l’obiettivo di bilanciare la crescente influenza dell’Iran – la principale potenza sciita del mondo – in Libano e altri paesi dell’area, come Siria, Iraq, Qatar e Palestina. Hezbollah, il movimento politico-terrorista sciita appoggiato dall’Iran, governa insieme ad Hariri in un governo di unità nazionale. Oggi ha accusato proprio l’Arabia Saudita e MbS di avere obbligato Hariri a dimettersi per destabilizzare il paese e addossare la colpa sulle forze sciite. Non è ancora chiaro se dietro alle dimissioni di Hariri ci sia davvero MbS, anche se la tempistica lo fa pensare. Se così fosse, sarebbe solo l’ultimo episodio riconducibile alla recente aggressività dell’Arabia Saudita in politica estera.
Se ne ha avuto un’altra dimostrazione proprio in questi giorni, in mezzo agli arresti e alle dimissioni di Hariri. Domenica l’esercito saudita ha fatto sapere di aver intercettato e abbattuto un missile balistico proveniente dallo Yemen vicino all’aeroporto di Riyad. L’attacco è stato rivendicato dai ribelli Houthi, i ribelli sciiti impegnati da più di due anni nella guerra civile dello Yemen, che ha già causato migliaia di morti. L’Arabia Saudita è entrata in guerra a sostegno di Abdrabbuh Mansur Hadi, il presidente sunnita del paese costretto alle dimissioni dagli Houthi nel gennaio 2015. Da allora è in corso una guerra molto sanguinosa che ha praticamente diviso lo Yemen a metà, esponendolo anche all’espansione dei gruppi jihadisti dell’area. Il recente attacco missilistico potrebbe portare a una nuova escalation del conflitto, soprattutto da parte dell’Arabia Saudita.
Le principali conseguenze a breve termine dei fatti di questi giorni, comunque, rimarranno interne all’Arabia Saudita. La lista delle persone arrestate e le incriminazioni a loro carico non sono ancora state diffusi dalle autorità saudite, ma i giornali sauditi e internazionali hanno saputo che contiene almeno due nomi molto grossi: quello del principe Mutaib bin Abdullah, figlio del re Abdullah morto nel 2015, e di Alwaleed bin Talal, uno degli uomini più ricchi al mondo e fra i più famosi investitori del paese.
Entrambi i loro arresti si possono ricondurre alla volontà di farli fuori dal punto di vista politico e mediatico. Fino a due giorni fa Mutaib bin Abdullah era il capo della Guardia Nazionale, una delle tre forze di sicurezza dello stato insieme all’esercito e ai servizi segreti. Storicamente le fazioni interne alla famiglia reale si sono sempre spartite il controllo delle tre forze, per bilanciare il loro potere. Da ieri sono tutte in mano a MbS, che controlla l’esercito dal 2015 in quanto ministro della Difesa e che tre mesi fa aveva sostituito il ministro degli Interni con un incaricato-fantoccio. Alwaleed bin Talal era molto noto nella comunità finanziaria, ma il suo ruolo politico nell’Arabia Saudita era ridotto. Il New York Times ipotizza che il suo arresto sia legato al fatto che i Talal votarono contro all’elezione di MbS a principe ereditario avvenuta all’interno del Consiglio di Fedeltà, un organo consultivo in cui sono rappresentate le varie fazioni della famiglia reale.
Colpendo due personaggi così in vista, è il ragionamento che fanno alcuni analisti, MbS ha voluto dimostrare di poter colpire anche i più potenti fra i suoi oppositori. Il principe ereditario non ha ancora fatto alcuna dichiarazione ufficiale in seguito agli arresti, sui quali rimangono alcuni punti oscuri: non è chiaro per esempio perché fra le persone fermate c’è anche Adel Fakeih, uno dei suoi più stretti consiglieri, e per quale motivo gli arresti sono stati compiuti proprio in questi giorni.
Alcuni hanno legato gli arresti alla recente visita in Arabia Saudita di Jared Kushner, genero del presidente americano Donald Trump e suo consigliere personale (gli Stati Uniti sono da anni il più importante alleato della famiglia reale saudita). David Ignatius, rispettato editorialista del Washington Post, ha fatto notare che Trump appoggia con forza Mbs e il suo piano, e che durante la sua visita della settimana scorsa Kushner si è intrattenuto con MbS fino alle 4 di notte per diverse sere di seguito. Ieri Trump e MbS si sono anche sentiti al telefono, anche se non sono trapelate ulteriori informazioni. Oggi invece MbS si vedrà col presidente palestinese Mahmoud Abbas, con cui probabilmente parlerà della crescente influenza dell’Iran su Hamas, il principale movimento politico-terrorista in Palestina.
Gli unici che sembrano in grado di fermare MbS sono i religiosi dell’establishment wahabita. Da decenni la famiglia reale ha ottenuto il loro appoggio in cambio del controllo di alcuni settori chiave del paese come l’istruzione, il sistema giudiziario e anche la segregazione delle donne. Per rafforzare la sua presa sul paese, MbS tenterà probabilmente di scardinare il loro potere, come annunciato nelle interviste in cui ha anticipato il ritorno di un Islam “moderato”. Bisognerà capire se e quando l’establishment wahabita deciderà di reagire.

 

c'è da dire che i misteriosi incidenti in elicottero li conosciamo pure noi... 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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.giornale Fonte : Hispan TV ..... :

Quoto
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Reparti corazzati dell’Esercito turco sono entrati all’alba di questa mattina ad Afrin, città  situata nelle vicinanze del confine Turco ed hanno iniziato le operazioni di appoggio alle milizie filoturche (ELS) presenti nella zona.
L’ingresso delle truppe turche è stato preceduto da un intenso bombardamento che ha spianato le posizioni dei reparti curdi appoggiati dagli USA.

Secondo la rete TV turca NTV, le forze turche sono riuscite ad entrare senza incontrare una forte resistenza da parte delle untà curde della YPG che erano posizionate a difesa di questa città.
Nel frattempo sono spariti i reparti speciali di forze USA che si trovavano sul posto in appoggio alle forze curde. Si ritiene che il comando USA abbia ricevuto un preavviso da parte del Governo turco per provvedere al ritiro dei reparti USA.
La situazione è comunque in pieno sviluppo.

 

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Visto che in molti credono ancora alla favola di Assad, Sisi, ecc "eletti dai loro popoli", ricordo un po' come funzionano le elezioni in certi paesi, dove alla fine l'amato presidente vincerà ovviamente con il 95-99% dei voti! .ghgh

 

 

 

In Egitto è stato arrestato il principale rivale del presidente alle prossime elezioni


L’ex generale Sami Anan era l'unico che sembrava avere qualche chance contro al Sisi, il grande favorito alle elezioni di marzo

 

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 Sami Anan in una fotografia del 2012 (AP Photo/Amr Nabil, File)
 

Le autorità egiziane hanno arrestato oggi l’ex generale Sami Anan, dopo avergli negato il permesso di candidarsi alle prossime elezioni presidenziali, fissate a marzo. Anan, ex membro del potente Consiglio supremo militare delle forze armate egiziane (SCAF), era visto come l’ultima possibile minaccia alla rielezione dell’attuale presidente, Abdel Fattah al Sisi, che sembra così non avere più rivali. Anan è stato accusato di avere falsificato alcuni documenti necessari per presentare la sua candidatura, ma diversi osservatori sospettano che il suo arresto sia stata una mossa calcolata del governo egiziano per escluderlo dalle prossime elezioni.

 

Anan è stato arrestato dopo che il precedente principale rivale di al Sisi, l’ex primo ministro egiziano Ahmed Shafiq, si era inaspettatamente ritirato. Shafiq, infatti, aveva annunciato la sua candidatura lo scorso novembre dagli Emirati Arabi Uniti. Dopo l’annuncio, Shafiq era stato però arrestato dalle autorità emiratine, considerate molto vicine ad al Sisi, ed era stato consegnato all’Egitto. Poi aveva dato un’intervista a una televisione egiziana nella quale negava di essere stato sequestrato, come invece sospettavano in molti, e annunciava di avere riconsiderato la sua candidatura alle elezioni: «Non sarei la persona ideale per guidare lo stato», aveva detto.

 

La scorsa settimana aveva ritirato la sua candidatura anche Mohamed Anwar al Sadat, nipote dell’ex presidente egiziano Anwar Sadat, ucciso nel 1981 mentre era ancora in carica. Sadat ha parlato di un ambiente ostile a una «sana competizione» politica e ha denunciato episodi intimidatori contro i suoi sostenitori. Oltre ad al Sisi, che negli ultimi anni ha instaurato in Egitto un regime molto autoritario – sembra che i candidati alle prossime elezioni saranno Khaled Ali, un avvocato di sinistra che però ha un processo in corso, e Mortada Mansour, un parlamentare di destra.

 

Fonte

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Come era largamente prevedibile, la sconfitta militare dell'ISIS non ha riportato la, pace in Siria, ma ha fatto entrare il conflitto in una nuova fase, direi almeno Siria 3.0.

A questo punto è chiaro (ma ovviamente  già lo si sapeva) come non fosse l'ISIS in sé (nonostante la sua barbarie) a produrre instabilità e ad impedire la soluzione del conflitto, bensì fattori esterni. L'ISIS semplicemente ha utilizzato il caos siriano per infiltrarsi e proliferare, ma in realtà quelli che veramente pescano nel torbido stanno a Teheran e ad Ankara.

 

1) Teheran prosegue pervicacemente nel suo progetto di aprirsi una "autostrada sciita" tra il Golfo ed il mediterraneo orientale e per questo, dopo essersi imposta in Iraq ha trasformato la Siria in una specie di protettorato, riuscendo così a collegarsi con Hezbollah.  E nel fare questo ha anche spaccato il fronte sunnita, amplificando la distanza tra Turchia e monarchie del Golfo. Allo stesso tempo, la sua avanzata verso ovest ha portato l'Iran ad entrare a diretto contatto con Israele. Non ho idea se l'Iran ha davvero intenzione di imbarcarsi in un conflitto con Israele,  ma la faccenda si sta muovendo su un piano inclinato e continuando così le cose, lo scontro sarà inevitabile e durissimo e non è detto che sarà limitato al solo teatro Siria/Golan/Galilea ma potrebbe coinvolgere anche lo stesso territorio iraniano.

Di una cosa secondo me possiamo essere certi. Israele non consentirà a Teheran di radicarsi impunemente in Siria. Quindi aspettiamoci un aumento della tensione nei prossimi mesi in  quella zona. Un'altra cosa che mi sento di dire è che Teheran  per il gioco che sta facendo, rischia di diventare ingombrante anche per Mosca,  e sarà interessante vedere fino a che punto Putin vorrà assecondare i fanatici barbuti e la loro continua propensione a destabilizzare tutta la regione. Fino ad ora l'alleanza tra i due ha portato vantaggi ad entrambi, ma non è detto che vada così anche nel futuro.

 

2) Ankara gioca una partita tutta sua che la porta a moltiplicare il numero dei suoi nemici.  Erdogan pare entrato in una spirale molto pericolosa, secondo me addirittura paranoica. Gioca su più tavoli e continua a rilanciare innescando nuove tensioni ed inimicandosi anche i vecchi amici.  Per ora il nuovo asse con Mosca e Teheran regge, ma dopo le elezioni russe Putin dovrà scegliere chi tenere e chi scaricare tra Teheran,  Ankara e Damasco,  senza contare che tra Mosca e Gerusalemme i rapporti rapporti sono buoni e non conviene affatto alla Russia danneggiare Israele. Quindi, in questa partita qualcuno è di troppo e non tutti possono vincere. Finora Erdogan ha rischiato molto ed ha ottenuto poco: vedremo adesso se di fronte al rischio di perdere anche quel poco (l'alleanza di comodo curdo-assadiana non è un bel segnale per Ankara) sceglierà di rischiare di meno (magari scendendo a più miti consigli) per ottenere qualcosa ed uscire dall'isolamento in cui si trova.

 

Brilla in tutto questo scenario l'inconsistenza di Washington che non si capisce bene quale progetto abbia ed addirittura risplende l'assenza della UE, che invece si capisce benissimo che  non ha alcun progetto. :patpat:  :patpat:

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praticamente in siria dpon aver combattuto per procura finanziando vari gruppi  e milizie,orasi preparano a combattere gli eserciti regolari.

israele e bibi dopo aver finaziato 6 gruppi sunniti radicali si prepara a scendere in campo ,per bibi è l'unica carta che può giocarsi in seguito ai problemi interni , in modo da compattare il paese e far passarein secondopiano le accuse di corruzione per la deriva che ha preso israele probabilemhnte ci riuscirà facilmante.

i turchi hanno già cominciato sono in campo,vogliono sterminare i curdi e prendersi un po di petrolio siriano/curdo

l'iran vuole arrivare nel mediterraneo difficilmente impiegherà il prorpio esercito ma hezbollah e qualcosain più di un gruppo paramilitare.

l'arabia saudita dopo lo yemen ha capito che la guerra non fa per loro probabilmente continueràa finaziare vari gruppi ma pare sempre più defilata con l'intezione dimbs di fortificazre ilpaese dopo i vari fallimenti in giroper il medio oriente

la russia vincitori del primo tempo devono "gestire" la situazione vari suoi alleati ora sono nemici

gli usa devono rifarsi,il rischio è quello di farsi nuovi nemici i curdi sono stati abbandonati, la turchia acquista armi russe sitazione complicata

l'europa giustamente si fa i prorpi affari situazione troppo complicata e imprevedibile rischio altissimo di parteggiare per i perdenti,tranne la solita combina danni francia che pensadi avere ancoraun ruolo di primopiano nel mondo

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3 ore fa, sol invictus ha scritto:

Come era largamente prevedibile, la sconfitta militare dell'ISIS non ha riportato la, pace in Siria, ma ha fatto entrare il conflitto in una nuova fase, direi almeno Siria 3.0.

A questo punto è chiaro (ma ovviamente  già lo si sapeva) come non fosse l'ISIS in sé (nonostante la sua barbarie) a produrre instabilità e ad impedire la soluzione del conflitto, bensì fattori esterni. L'ISIS semplicemente ha utilizzato il caos siriano per infiltrarsi e proliferare, ma in realtà quelli che veramente pescano nel torbido stanno a Teheran e ad Ankara.

 

1) Teheran prosegue pervicacemente nel suo progetto di aprirsi una "autostrada sciita" tra il Golfo ed il mediterraneo orientale e per questo, dopo essersi imposta in Iraq ha trasformato la Siria in una specie di protettorato, riuscendo così a collegarsi con Hezbollah.  E nel fare questo ha anche spaccato il fronte sunnita, amplificando la distanza tra Turchia e monarchie del Golfo. Allo stesso tempo, la sua avanzata verso ovest ha portato l'Iran ad entrare a diretto contatto con Israele. Non ho idea se l'Iran ha davvero intenzione di imbarcarsi in un conflitto con Israele,  ma la faccenda si sta muovendo su un piano inclinato e continuando così le cose, lo scontro sarà inevitabile e durissimo e non è detto che sarà limitato al solo teatro Siria/Golan/Galilea ma potrebbe coinvolgere anche lo stesso territorio iraniano.

Di una cosa secondo me possiamo essere certi. Israele non consentirà a Teheran di radicarsi impunemente in Siria. Quindi aspettiamoci un aumento della tensione nei prossimi mesi in  quella zona. Un'altra cosa che mi sento di dire è che Teheran  per il gioco che sta facendo, rischia di diventare ingombrante anche per Mosca,  e sarà interessante vedere fino a che punto Putin vorrà assecondare i fanatici barbuti e la loro continua propensione a destabilizzare tutta la regione. Fino ad ora l'alleanza tra i due ha portato vantaggi ad entrambi, ma non è detto che vada così anche nel futuro.

 

2) Ankara gioca una partita tutta sua che la porta a moltiplicare il numero dei suoi nemici.  Erdogan pare entrato in una spirale molto pericolosa, secondo me addirittura paranoica. Gioca su più tavoli e continua a rilanciare innescando nuove tensioni ed inimicandosi anche i vecchi amici.  Per ora il nuovo asse con Mosca e Teheran regge, ma dopo le elezioni russe Putin dovrà scegliere chi tenere e chi scaricare tra Teheran,  Ankara e Damasco,  senza contare che tra Mosca e Gerusalemme i rapporti rapporti sono buoni e non conviene affatto alla Russia danneggiare Israele. Quindi, in questa partita qualcuno è di troppo e non tutti possono vincere. Finora Erdogan ha rischiato molto ed ha ottenuto poco: vedremo adesso se di fronte al rischio di perdere anche quel poco (l'alleanza di comodo curdo-assadiana non è un bel segnale per Ankara) sceglierà di rischiare di meno (magari scendendo a più miti consigli) per ottenere qualcosa ed uscire dall'isolamento in cui si trova.

 

Brilla in tutto questo scenario l'inconsistenza di Washington che non si capisce bene quale progetto abbia ed addirittura risplende l'assenza della UE, che invece si capisce benissimo che  non ha alcun progetto. :patpat:  :patpat:

Situazione molto complicata, ormai in Siria è una specie di tutti contro tutti. 

L'assenza della UE non sorprende, quella americana si. 

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@Ronnie O'Sullivan

 

Sulla Turchia ti rispondo qui perché mi pare più in-topic rispetto alle migrazioni.

 

Anche secondo me quel golpe puzza di bruciato e ci vedo una manovra dei servizi turchi (coinvolti fino al collo nei traffici con Daesh -petrolio, combattenti,  armi) in combutta con il clan Erdogan (che ha le mani in pasta in tutti gli interessi di gas e petrolio che riguardano la Turchia) per  ragioni di reciproca convenienza:  i primi per mettere il guinzaglio ai militari riottosi e per coprire la combutta che i servizi avevano intessuto con Daesh e che rischiava di saltare fuori, e i secondi per avere assoluta libertà di movimento nel groviglio di intrallazzi con gas e  petrolio azero e iraniano,  senza rischiare di essere messi in croce da qualche magistrato troppo zelante (e in effetti la magistratura è stata decapitata, guarda caso).

Oltretutto una delle mire del Sultano era di trasformare la Turchia in un hub energetico in grado di smistare gas e petrolio di varia provenienza verso l'Europa, diventando così una specie di arbitro dell'energia nell'area mediterranea, con in mano le chiavi dei gasdotti. Da qui il suo accordo con i russi per Turkish Stream che per Mosca è strategico per bypassare l'Ucraina (e quindi di fatto distaccarla dall'Europa in quanto "inutile" come paese di transito del gas siberiano alla UE), il quale si va ad aggiungere alle pipelines che già esistono  dal Caucaso e dell'Iran e che passano attraverso l'Anatolia. 

In più Erdy contava di diventare il terminale anche degli enormi giacimenti offshore israeliani (circa 950mld m3 di gas) in due giacimenti di cui uno già operativo e l'altro che dovrebbe entrare in funzione nel 2019, di un analogo giacimento egiziano nel mediterraneo orientale (concessione Eni) e di uno più piccolo (130 mld m3) al largo di Cipro. Nell'ottica di Erdy tutto questo ben di Dio sarebbe dovuto passare attraverso pipelines stese dal MedOr alla costa meridionale turca e  da qui in Europa. In pratica sarebbe diventato l'arbitro di un buon terzo delle forniture energetiche all'Europa.

Tuttavia qualcosa gli è andata storta.

Morsi, il suo amichetto egiziano è stato fatto fuori dal "golpe democratico" di Al Sisi , che è invece legato ai sauditi (che sicuramente non vedevano di buon occhio tutto 'sto potere in mano al Sultano); è finito ai ferri corti con Israele  e ha perso la possibilità di farsi terminale del gas israeliano, che invece passerà in Egitto; è incazzato perché, diversamente dalle coste egiziane, israeliane, cipriote e libanesi,  quelle turche non hanno sputato fuori finora manco un'oncia di gas e per questo adesso si è messo a bloccare le prospezioni dell'ENI a Cipro rivendicando un inesistente interesse della Turchia sulle riserve cipriote. In più  non è ancora riuscito a trovare un accordo economico con i russi per la parte terrestre di Turkish Stream che quindi subirà ritardi oltre il 2019.

Da qui la sua frustrazione,  che lo porta ad alzare continuamente la posta per celare i risultati scadenti ottenuti in tutto questo * di risiko: da non dimenticare infatti che Erdy ha dovuto ingoiare obtorto collo la permanenza di Assad sulla poltrona siriana, probabilmente come condizione per allacciare buone relazioni con Mosca.

Ovvio che quindi adesso Erdy veda la questione curda nel nord della Siria come risultato minimo non negoziabile per sbandierare (soprattutto ai suoi) una parvenza di successo dalle sue manovre spericolate (e finora abbastanza inconcludenti).

Ma anche sui curdi, rischia di finire contro un muro visto che Assad (che è un grandissimo figlio di * e criminale , ma che è maledettamente intelligente ed abile a tutelarsi il *, quanto e forse meglio di suo padre), gli ha fatto la mossa del cavallo.

 

Insomma, sul fuoco ci sono parecchie pentole a pressione e prima o poi qualcuna finirà per scoppiare.

 

 

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3 ore fa, Vonpalace ha scritto:

l'europa giustamente si fa i prorpi affari situazione troppo complicata e imprevedibile rischio altissimo di parteggiare per i perdenti,tranne la solita combina danni francia che pensadi avere ancoraun ruolo di primopiano nel mondo

In invece credo - da molto tempo - che l'Unione Europea dovrebbe avere una propria unitaria politica estera comune, con relativa politica di difesa comune (leggasi: esercito europeo), che  faccia da contrappeso agli Stati Uniti (che essendo culturalmente rozzi e geograficamente lontani spesso combinano casini) ed, in parte, Russia e Cina. 

 

L'Europa che ha abdicato al suo ruolo, non dico guida, ma di primo piano nello scacchiere mondiale è, a mio avviso, una delle colpe maggiori di questo continente che sta perdendo l'anima e quindi anche tutto il resto. La culla della Civiltà Occidentale che abdica - per il particularismo e per ignavia - al proprio ruolo grida vendetta al cospetto del Cielo ed è una delle cause dell'instabilità non solo mediorientale, ma anche dell'Africa intera. 

 

Concordo invece che i singoli stati europei, a livello di egemonia politico/culturale e strategica, non contano più una fava, con buona pace delle manie di grandeur francesi, dell'imperialismo inglese e della forza economico-organizzativa tedesca. L'atteggiamento francese - vedasi Libia - è particolarmente odioso. 

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Notizia interessante sul Sole di oggi: dopo Israele, che ha stipulato un accordo decennale con l'Egitto  per la vendita del gas estratto dai due giacimenti offshore Thamar e Leviathan recentemente scoperti, anche Cipro, secondo quanto riferito dal ministro cipriota dell'energia sarebbe sul punto di fare altrettanto, pompando in Egitto i circa 130 mld m3 di gas del giacimento Aphrodite. Quindi un altro schiaffo sulla faccia di Erdogan.

A controllare i giacimenti ciprioti è una società mista tra americani, israeliani e olandesi della Shell, la quale Shell controlla anche uno dei due impianti egiziani di liquefazione nei quali verrà confluito il gas israeliano e quello cipriota; l'altro impianto egiziano,  quello di Damietta è invece dell'ENI. La stessa ENI  sta conducendo ulteriori prospezioni nelle acque attorno a Cipro.. Quindi, direi che il giro sia abbastanza chiaro.

La questione delle riserve cipriote è oltretutto resa incandescente dal fatto che le nuove perforazioni ENI avrebbero individuato un nuovo promettente giacimento denominato Calypso le cui riserve sommate a quelle di Aphrodite renderebbero conveniente la costruzione di un apposito gasdotto verso l'Egitto: cosa che spiega la scelta cipriota di sfruttare Aphrodite,  altrimenti antieconomica. 

 

Da qui il blocco piratesco  alla nave petrolifera della Saipem da parte della marina turca, che ovviamente vede tutte queste manovre come fumo negli occhi.

 

Inoltre Cipro è recentemente entrato a far parte del consorzio EastMed incaricato di progettare una pipeline che (nel 2025) collegherà Israele all'Italia,  via Cipro e Grecia, cosa che consentirebbe di diminuire la dipendenza europea dal gas russo.

 

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Intanto il regime di Assad e la Russia stanno praticamente usando Ghouta per scaricare le bombe avanzate in questi anni. Si parla di centinaia di vittime, alcune fonti parlano addirittura di più di mille vittime civili nei bombardamenti di questi giorni. Solo che non fa più notizia la mattanza di civili siriani, tanto 500 mila o 510 mila che differenza fa! 

 

http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-02-23/pioggia-bombe-e-strage-civili-ghouta-nuova-aleppo-siriana-122353.shtml?uuid=AEB7Mh5D

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